(Massimo Franco, Corriere della Sera) I
colloqui insieme a Benedetto XVI nei giardini vaticani e tra le mura
del «Mater ecclesiae». Sul rapporto tra lui e Francesco: «Non era
scontato che funzionasse» -- «Pregherò
per l’Italia…». La voce era un soffio che si perdeva nei viali deserti
dei giardini vaticani. Ma l’interesse e la preoccupazione che si
indovinavano nelle parole del Papa emerito, Benedetto XVI, erano
evidenti e acuti. Joseph Ratzinger sedeva su una panchina dietro la
Grotta di Lourdes, la cappella scavata in una roccia dove ogni tanto
andava per recitare il Rosario. Erano le sette del pomeriggio di un fine
settimana romano. Il Corriere voleva ringraziarlo personalmente per il
messaggio mandato ai lettori il 5 febbraio del 2018, nel quale
rispondeva ai tanti che chiedevano come stesse: la sua salute era già
materia di polemiche e congetture.
Una piccola papamobile elettrica, bianca, come quelle usate sui campi
da golf, aspettava a rispettosa distanza che finisse la sua breve
passeggiata e la meditazione tra i prati immacolati e gli alberi nel
cuore più profondo e inaccessibile dei Giardini vaticani. La sua figura
esile era una macchia bianca tra il verde scuro delle piante.
Accompagnato da monsignor Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia
e suo segretario personale, appariva smagrito. Ma era lucido, attento. E
con una curiosità intatta a novantuno anni. Bastò il libro sull’Italia
senza leader che gli regalò Luciano Fontana per confermare la sua
attenzione a quanto accadeva nella capitale politica che si intravedeva
in basso.
Chiese se il capo dello Stato, Sergio Mattarella, sarebbe riuscito a
formare un nuovo governo dopo lo tsunami del voto populista. E quando si
sentì rispondere che probabilmente sì, avrebbe risolto la crisi,
sebbene non fosse scongiurato il rischio di nuove elezioni, gli occhi
ebbero un lampo e ripeté: «Pregherò per l’Italia». Era vestito di
bianco, come sempre. Sopra l’abito talare indossava una giacca a vento
leggera, senza maniche, candida come i capelli e lo zucchetto. L’unica
cosa scura, nella figura minuta e fragile, erano i sandali marroni di
cuoio. Le mani mostravano dita affusolate, magrissime: tanto che
l’anello pontificale appariva smisurato.
Gli echi del mondo, nel Monastero Mater Ecclesiae distante un
centinaio di metri, dove viveva in modo monacale dal maggio del 2013,
dopo la rinuncia, arrivavano attutiti. Ma arrivavano: anche se nel
tramonto romano i suoi gesti lenti davano l’idea che Benedetto vivesse
ormai in una dimensione «altra». Quegli echi non erano sempre piacevoli.
I tradizionalisti cattolici gridavano la nostalgia per il suo papato,
cercando di contrapporlo a Francesco: inutilmente. «Io cerco di parlare
con il silenzio, soprattutto. E confido che questo sia apprezzato».
Nelle sue parole si indovinava la soddisfazione, quasi il felice
stupore di chi non sapeva, all’inizio, se la convivenza tra i «due
Papi» avrebbe funzionato. «Non era scontato», ammise Benedetto. «È stato
quasi un miracolo. Ma io e Papa Francesco ci vogliamo bene. Parliamo
tanto quando mi viene a trovare…». Già allora, Jorge Mario Bergoglio
veniva accusato dagli avversari di mettere a rischio l’unità della
Chiesa. Ma Benedetto aveva lo sguardo fiducioso di chi la conosceva
bene. «L’unità della Chiesa è sempre in pericolo, da secoli. Lo è stata
per tutta la sua storia. Ma la sua unità è sempre stata più forte delle
lotte e delle guerre interne».
Eravamo seduti tutti su una panchina di legno. Don Georg scattò
alcune foto con il cellulare: istantanee senza pretese di ufficialità,
del tutto informali. A un tratto Gianluca, il gendarme in borghese con
l’auricolare che accompagnava Benedetto e guidava la piccola papamobile,
colse un cenno di monsignor Gänswein. Il Papa emerito si congedò
alzandosi in piedi, sebbene gli dovesse costare fatica. Con il garbo che
solo i grandi sanno trasmettere, salutò con una lieve stretta di mano.
Fu il primo incontro dei tre che Ratzinger, tramite l’arcivescovo «don
Georg», concesse al Corriere.
Anche il secondo avvenne nei giardini vaticani, non ancora al
Monastero: come se l’accesso a quella villa di mattoni chiari, con
l’orto di prodotti biologici a destra e la cappella privata a sinistra,
fosse l’approdo di un rapporto di fiducia da costruire per gradi. Le
vignette di Emilio Giannelli sono state un passaporto lieve e sorridente
per ottenerla. L’appuntamento numero due con Benedetto nacque proprio
dall’idea di consegnargli i disegni del suo vignettista più amato. Era
il giugno del 2019. Giannelli aveva portato a Roma da Siena una
caricatura e cinque vignette su Benedetto: ne scartò tre temendo che
fossero troppo irriverenti.
Ma quelle che portò in dono furono un successo. Una, del 15 marzo
2013, ritraeva Bergoglio e Ratzinger che accennavano un passo di danza
in coppia. Benedetto teneva tra i denti una rosa. E la didascalia
diceva: «La Chiesa cambia passo». E sotto: «Tango». La seconda, del 17
luglio del 2014, mostrava il papa emerito con la coppa del mondo di
calcio in mano, che diceva: «Urbi et orbi», mentre un Bergoglio
affranto, ripreso di spalle, si allontanava con la maglia della
nazionale argentina sulle spalle. Quell’anno, a differenza del 2022,
l’Argentina era stata battuta dalla Germania di Ratzinger nella finale a
Rio De Janiero.
Il terzo disegno, una caricatura di Benedetto, lo ritraeva con due
grandi orecchie e un enorme naso. «Oh, che naso!» aveva esclamato il
papa emerito, ridendo di gusto. L’aspetto più intrigante, però, era
stato il dialogo tra i due. Giannelli gli raccontò dell’amata Siena, e
della devozione di suo fratello, scomparso da poco: una dimestichezza
con la fede che, ammise, non gli apparteneva. Benedetto, guardandolo
fisso, gli disse solo quattro parole, fulminanti: «Ha tempo per
rimediare». Il terzo incontro fu fissato finalmente al Monastero: due
anni dopo, all’inizio del 2021, insieme con Luciano Fontana.
Una delle Memores, le quattro «donne consacrate» di Cl che hanno
vissuto con lui al Monastero, ci introdusse nel salottino al
pianterreno, prima che comparisse il prefetto della Casa pontificia e ci
portasse al primo piano con un piccolo ascensore. Fontana porse a
Benedetto una cartellina rossa con dentro due nuove caricature di
Giannelli: una consuetudine, ormai. «Giannelli è una persona spiritosa»,
chiosò con aplomb papale e bavarese. Ormai aveva difficoltà ad
articolare le parole. Bisognava parlargli da vicino, perché portava due
auricolari per sentire meglio.
Ma era rapido di mente, eccome. Sapeva cosa voleva e non voleva dire.
«Non ci sono due Papi. Il Papa è uno solo…», disse battendo debolmente
il palmo della mano sul bracciolo. Joseph Ratzinger lo affermò con un
filo di voce, seduto su una delle due poltrone di pelle chiara che
arredavano il salone al primo piano del suo eremo. Sul comodino erano
appoggiati gli occhiali da lettura, accanto a una statuetta di legno che
raffigurava una Madonna con Bambino.
Incontrare Benedetto era un’occasione rara già in quei mesi. E ancora
più inusuale era il fatto che accettasse di affrontare l’argomento più
traumatico per la vita della Chiesa negli ultimi secoli: la rinuncia.
Dopo otto anni, disorientamento e maldicenze ristagnavano, avvelenando
il clima vaticano. Benedetto sembrava volerli esorcizzare. Chiedemmo se
avesse ripensato spesso a quel giorno. Annuì. «È stata una decisione
difficile. Ma credo di avere fatto bene. Alcuni miei amici un po’
“fanatici” sono arrabbiati, non hanno voluto accettare la mia scelta. Ma
la mia coscienza è a posto».
Le frasi uscivano col contagocce. E monsignor Gaenswein in alcuni
rari passaggi «traduceva». Ratzinger portava un orologio al polso
sinistro, e al destro un bracciale pronto a suonare se avesse avuto
problemi fisici. La stanza era calda, sobria, col pavimento di marmo. A
fianco della libreria erano appese icone e immagini sacre. Il Papa
emerito accennò a Mario Draghi. «Speriamo che riesca a risolvere la
crisi», diceva. «È un uomo molto stimato anche in Germania». Parlò di
Biden, del vaccino anti-Covid che aveva appena fatto con «don Georg». E
l’ora di conversazione volò via.
Fuori cominciava a fare buio. Benedetto consegnò come ricordo una
medaglia e un segnalibro: entrambe di quando era Papa. E di nuovo
affiorò il paradosso di una Chiesa immersa senza volerlo nell’intreccio
di due identità. Rimanendo stavolta seduto, Ratzinger ringraziò
indicando le vignette sul tavolino. In una, a colori, consegnava a un
Francesco corrucciato le chiavi della Chiesa, aggiungendo: «Mi
raccomando…». Un’auto guidata da una guardia svizzera in borghese con
l’auricolare ci riportò in tre minuti all’entrata di Porta Sant’Anna: in
un altro mondo.
E durante il tragitto, fu inevitabile chiedersi se quando
Ratzinger ribadiva che «il Papa è uno», si rivolgesse ai «fanatici» suoi
amici; magari ai seguaci di Francesco, spaventati dal papa-emerito. Ma
anche se forse, con la sua voce interiore, Benedetto non sussurrasse
inconsciamente a sé stesso che poteva esistere un solo pontefice. Da
allora, il Monastero è diventato, se possibile, più silenzioso. Solo
nell’aprile del 2022, quando Ratzinger stava per compiere 95 anni,
arrivò la richiesta di un video di auguri da trasmettere via email. Un
minuto e mezzo scarso, illustrato, guarda caso, da due vignette di
Giannelli. Gli originali furono recapitati al Monastero a fine luglio.