venerdì 11 novembre 2022

Vaticano
I lupi della Chiesa e il coraggio di Ratzinger in tribunale

(Angelo Scelzo - Il Mattino)
Due fatti, alla fine contrapposti, tratti dall'universo malato della pedofilia e degli abusi sessuali nella Chiesa. Undici vescovi francesi sotto inchiesta, e un cardinale, ex presidente della conferenza episcopale, Jean Pierre Ricard, che rivela di aver avuto comportamenti riprovevoli, quand'era parroco, nei confronti di una ragazza di 14 anni. Drammaticamente niente di nuovo, da circa vent'anni a questa parte, nel campo minato di una controtestimonianza che, da parte del clero, più radicale non si potrebbe immaginare. Un flagello contro il quale Francesco non ha risparmiato nessuna energia usando totale fermezza, fino alla tolleranza zero nei confronti dei colpevoli, e riservando piena comprensione e tenerezza nei confronti delle vittime.
È degli stessi giorni, tuttavia - fatto numero due - un gesto che forse più di ogni altro dà la misura di come la Chiesa senta addosso e non si dia pace del peso di questa sporcizia e del tormento dal quale si sente assalita. Ad esprimere quest'ansia c'è l'inedito passo avanti, sulla via della giustizia civile, di un vecchio uomo di Dio, diventato Papa e poi ritiratosi, per sua volontà, sul monte.
«Pregate per me perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi»: furono queste le parole pronunciate dal neoeletto Benedetto XVI, nella messa d'inizio pontificato, la domenica del 24 aprile 2005. Sotto forma di scandali, i lupi del terzo millennio si sono affollati sulla via della Chiesa. La pedofilia ha provato ad azzannare l'anima del sacerdozio. «È difficile capire come questa perversione del ministero sacerdotale sia stata possibile», confessava papa Benedetto, e aggiungeva: «Vedere il sacerdozio improvvisamente insudiciato in questo modo, e con ciò stesso la Chiesa cattolica, è stato difficile da sopportare». E durante il viaggio a Londra, il Papa arrivò ad inserire le vittime dei preti pedofili nella schiera dei martiri della Chiesa.
Potrebbe valere l'obiezione che anche le parole più dure alla fine restano tali, se non fosse evidente e documentabile tutta l'opera di papa Ratzinger, già da Prefetto della Dottrina delle fede, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, di trasferire sul piano legislativo, non più solo interno, ma aperto al giudizio civile, tutta la normativa relativa a un reato che nonostante la sua gravità estrema stentava a prendere la via della legislazione ordinaria. È per questo che a suo modo, pur nel contorto sviluppo di un procedimento basato su un presunto reato commesso oltre 40 anni fa, la richiesta del tribunale bavarese di Traustein di chiamare in giudizio civile - insieme con il cardinale Friedeich Wettel e la stessa diocesi di Monaco - l'allora arcivescovo Joseph Ratzinger, chiude il cerchio su un percorso che sancisce una svolta radicale e definitiva nella trattazione di realtà così delicate e scabrose. Nella sostanza viene poi a rendersi concreta una linea di continuità, all'insegna della tolleranza zero, tra la visione di Francesco e quella del Papa emerito. Ma il passo compiuto dal novantacinquenne successore di Papa Wojtyla merita di essere sottolineato come uno straordinario atto di umiltà e di esemplare testimonianza sul piano civile, prima ancora che ecclesiale. Più che il tribunale ordinario, a un consacrato che consapevolmente vive il suo ultimo tratto di strada, è certo più presente l'altro tribunale non amministrato dalla giustizia degli uomini. E tuttavia egli sente che non può trattarsi di un buon motivo per sottrarsi a un giudizio terreno, se questo può servire non solo a ristabilire la verità ma a renderle un laico e non formale omaggio. Senza verità è difficile vivere sia nella chiesa che nella società.
Non sarà possibile, certo, vedere Joseph Ratzinger, troppo fragile in salute, seduto sugli scranni del tribunale bavarese, difendersi e ribadire la sua estraneità, magari chiarire equivoci come avviene in ogni dibattimento. Ma i suoi avvocati, per la prima volta nella storia, parleranno in aula a nome di un Papa emerito. Non può passare perciò inosservata - perché alla fine è commovente - questa totale ed estrema assunzione di responsabilità, da parte di un uomo giunto al tramonto della vita. Tanto più se si pensa al percorso accidentato che l'incartamento di difesa ha già dovuto subire. Nella trascrizione degli atti era stato commesso un errore circa la presenza o meno dell'allora arcivescovo di Monaco in un certo momento della riunione in cui si trattava della posizione del prete pedofilo, padre Hullmann. Per rimediare a quell'errore, il Papa emerito aveva dovuto raccogliere intorno a sé e alle sue forze residue, un gruppo di collaboratori ed amici: dovevano aiutarlo a respingere, carte alla mano, l'accusa di bugiardo. Una volta concluso il lavoro, Joseph Ratzinger volle accompagnare l'esito con una lettera di struggente bellezza nella quale, al di là della stessa vicenda processuale, il dato era avvalorato da una richiesta di perdono: «Posso solo esprimere – scriveva - ancora una volta, nei confronti di tutte le vittime di abusi sessuali, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono». Una strenua ricerca della verità per mano della giustizia degli uomini e il piano alto della misericordia a renderla ancora più autentica ed efficace. Si può parlare, almeno in ordine di tempo, come di un'ultima lezione di Ratzinger, grande teologo e maestro di vita. In questo senso non emerito, ma totalmente in carica. Il processo si terrà in gennaio.
(Il Mattino, 11.11.2022)