(Alberto Melloni, la Repubblica) Il concistoro di tutti i cardinali della chiesa cattolica che si riunisce a fine agosto è inedito per due motivi. Esso ha un nitido sapore pre-conclavario. Il Papa ha fatto ripetuti annunci e frenate sulle dimissioni che potrebbe dare in un “dopodomani”. Però tutti sanno che è pronta la legge sulla rinuncia che definirà lo status del vescovo emerito di Roma, peraltro già esemplata dalla prassi ratzingeriana.
Inoltre è noto che Francesco sta facendo scrivere una riforma del conclave: necessarissimo dopo che, per punirsi dell’omertà sugli abusi di cui è stata parte, la chiesa di Roma s’è imposta un giustizialismo che rende tutti i cardinali vulnerabili a rivelazioni e calunnie indistinguibili. Forse il Papa lo ha convocato per verificare la qualità dei nomi che ha scelto o per creare un po’ di socialità porporata: ma certo i cardinali un concistoro così non l’hanno mai visto.
Accanto però c’è una novità sostanziale. I cardinali dovranno discutere non tanto della riforma della curia, che è già in vigore e che sarà fatalmente riformata, come accade ininterrottamente da un secolo. Potranno solo plaudire alla importante chiarificazione che colloca la curia non “fra il papa e i vescovi”, ma a servizio di entrambi. Ma dovranno misurarsi con una tesi che colpisce al cuore il Concilio Vaticano II, e che costituisce un punto dirimente per il futuro della Chiesa.
Chi ha sistemato il testo della riforma doveva giustificare la volontà del Papa di avere a cariche importanti di curia laici e laiche: idea che, come la internazionalizzazione di Paolo VI, sembra molto innovativa. Ma che ha due significati opposti a seconda del modo in cui la si motiva. Se questa ascesa nasce dal “salire” dal battesimo essa significa la partecipazione di tutti i carismi al dinamismo di comunione affidato ai vescovi che in virtù del sacramento della consacrazione diventano voce della Chiesa universale nella Chiesa particolare e viceversa. Se la si fa invece scendere dal Papa, che delega chi gli pare in quanto unica fonte della giurisdizione, allora si torna indietro di secoli e si risuscita una opposizione medievale fra potestà di ordine e potestà di giurisdizione: quella dicotomia, per intenderci, che consentiva ai cardinali di prendere le diocesi, rinunciare alla ordinazione e lasciare la cura d’anime agli ausiliari.
Il testo della riforma – attribuita a padre Ghirlanda ora cardinale – fa sua questa visione e stabilisce che ogni cristiano può servire Papa e collegio perché il pontefice gli delega un po’ della sua potestà di giurisdizione, salvo poi pretendere l’ultima parola su tutto.
Lana caprina? Niente affatto. Il Concilio decise in modo sofferto e consapevole che è la consacrazione episcopale che dà al vescovo tutta la grazia necessaria per rappresentare la comunione delle chiese e partecipare in comunione con Pietro al governo della Chiesa universale. Il Vaticano II aveva dalla sua la lezione dei giganti della teologia come Rahner e Congar e dei giganti del diritto canonico, come Klaus Mörsdorf ed Eugenio Corecco: e per decenni ogni tentativo di tornare a spaccare la sacra potestas è stata percepita come un degrado dei vescovi a funzionari che perfino Pio IX aveva ritenuto un assunto “immorale e dispotico”. Ma gli anni passano e questa rivincita di una scuola romana è stata fatta passare senza che il Papa potesse rendersene conto.
Il che costituisce una provocazione alla fedeltà di Francesco al Concilio, ma anche un bene. Perché obbligherà i cardinali a parlare di dottrina. Da anni dilaga infatti un qualunquismo teologico che pretende di difendere Francesco dai reazionari ripetendo che egli “non tocca la dottrina”, ma “la pastorale”. E così si offende sia la dottrina (che non è un monolite, ma una gerarchia di verità), sia la pastorale (che è aggettivo del modo d’essere Gesù e non il marketing del sacro per allocchi), sia il successore di Pietro (che è maestro della fede e non una guardia giurata posto davanti a un caveau).
Questa volta non si scappa: si parla di magistero e del “balzo innanzi”, come disse Papa Giovanni, che il Concilio voleva fare e fece. Discutere di sacra potestas non servirà dunque ad avvicinare o allontanare il conclave, né a validare o demolire una riforma che, tempo due papi, un pontefice riformerà.
Servirà a capire se la Chiesa sa che la vela del Vaticano II è ancora quella che la può portare verso decisioni non rinviabili e un futuro Concilio che li affronterà.
Inoltre è noto che Francesco sta facendo scrivere una riforma del conclave: necessarissimo dopo che, per punirsi dell’omertà sugli abusi di cui è stata parte, la chiesa di Roma s’è imposta un giustizialismo che rende tutti i cardinali vulnerabili a rivelazioni e calunnie indistinguibili. Forse il Papa lo ha convocato per verificare la qualità dei nomi che ha scelto o per creare un po’ di socialità porporata: ma certo i cardinali un concistoro così non l’hanno mai visto.
Accanto però c’è una novità sostanziale. I cardinali dovranno discutere non tanto della riforma della curia, che è già in vigore e che sarà fatalmente riformata, come accade ininterrottamente da un secolo. Potranno solo plaudire alla importante chiarificazione che colloca la curia non “fra il papa e i vescovi”, ma a servizio di entrambi. Ma dovranno misurarsi con una tesi che colpisce al cuore il Concilio Vaticano II, e che costituisce un punto dirimente per il futuro della Chiesa.
Chi ha sistemato il testo della riforma doveva giustificare la volontà del Papa di avere a cariche importanti di curia laici e laiche: idea che, come la internazionalizzazione di Paolo VI, sembra molto innovativa. Ma che ha due significati opposti a seconda del modo in cui la si motiva. Se questa ascesa nasce dal “salire” dal battesimo essa significa la partecipazione di tutti i carismi al dinamismo di comunione affidato ai vescovi che in virtù del sacramento della consacrazione diventano voce della Chiesa universale nella Chiesa particolare e viceversa. Se la si fa invece scendere dal Papa, che delega chi gli pare in quanto unica fonte della giurisdizione, allora si torna indietro di secoli e si risuscita una opposizione medievale fra potestà di ordine e potestà di giurisdizione: quella dicotomia, per intenderci, che consentiva ai cardinali di prendere le diocesi, rinunciare alla ordinazione e lasciare la cura d’anime agli ausiliari.
Il testo della riforma – attribuita a padre Ghirlanda ora cardinale – fa sua questa visione e stabilisce che ogni cristiano può servire Papa e collegio perché il pontefice gli delega un po’ della sua potestà di giurisdizione, salvo poi pretendere l’ultima parola su tutto.
Lana caprina? Niente affatto. Il Concilio decise in modo sofferto e consapevole che è la consacrazione episcopale che dà al vescovo tutta la grazia necessaria per rappresentare la comunione delle chiese e partecipare in comunione con Pietro al governo della Chiesa universale. Il Vaticano II aveva dalla sua la lezione dei giganti della teologia come Rahner e Congar e dei giganti del diritto canonico, come Klaus Mörsdorf ed Eugenio Corecco: e per decenni ogni tentativo di tornare a spaccare la sacra potestas è stata percepita come un degrado dei vescovi a funzionari che perfino Pio IX aveva ritenuto un assunto “immorale e dispotico”. Ma gli anni passano e questa rivincita di una scuola romana è stata fatta passare senza che il Papa potesse rendersene conto.
Il che costituisce una provocazione alla fedeltà di Francesco al Concilio, ma anche un bene. Perché obbligherà i cardinali a parlare di dottrina. Da anni dilaga infatti un qualunquismo teologico che pretende di difendere Francesco dai reazionari ripetendo che egli “non tocca la dottrina”, ma “la pastorale”. E così si offende sia la dottrina (che non è un monolite, ma una gerarchia di verità), sia la pastorale (che è aggettivo del modo d’essere Gesù e non il marketing del sacro per allocchi), sia il successore di Pietro (che è maestro della fede e non una guardia giurata posto davanti a un caveau).
Questa volta non si scappa: si parla di magistero e del “balzo innanzi”, come disse Papa Giovanni, che il Concilio voleva fare e fece. Discutere di sacra potestas non servirà dunque ad avvicinare o allontanare il conclave, né a validare o demolire una riforma che, tempo due papi, un pontefice riformerà.
Servirà a capire se la Chiesa sa che la vela del Vaticano II è ancora quella che la può portare verso decisioni non rinviabili e un futuro Concilio che li affronterà.
La Repubblica 24 agosto 2022