giovedì 17 febbraio 2022

Vaticano
I molti aspetti singolari della giustizia vaticana

(Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera)
Il processo al cardinale Becciu getta luce sul punto che è all’origine, perlomeno all’origine immediata, della crisi che sembra ormai dilagare nella Chiusa cattolica -- Il processo che ha come più noto imputato il cardinale Becciu un effetto sicuro lo sta avendo. Che nessuno, se fosse chiamato a rispondere di una qualsiasi imputazione — dall’omicidio volontario all’eccesso di velocità — accetterebbe mai, potendo scegliere, di essere processato da un tribunale vaticano. Si può discutere a lungo, infatti, se sia meglio affrontare la giustizia in una corte americana o in un tribunale italiano, ma dopo quello che stiamo vedendo da un paio d’anni è sicuro che a nessuna persona sana di mente verrebbe in testa di affrontare la dea bendata in un’aula all’ombra di San Pietro. In tutto questo tempo, infatti, almeno alcune cose sono divenute chiare «al di là di ogni ragionevole dubbio», come si dice: l) che proprio come in Alice nel paese delle meraviglie nello Stato del Vaticano le pene vengono comminate prima della condanna (Becciu è stato privato di tutti i diritti connessi al cardinalato ex abrupto dal Papa senza che ci fosse stato in precedenza nei suoi confronti alcun atto giudiziario di alcun tipo); 2) che in Vaticano — sempre come nel paese delle meraviglie — chi dispone del potere di farlo può cambiare come vuole le regole del processo nel corso del medesimo: e non una, ma due, tre, quattro volte, tramite appositi pronunciamientos chiamati «rescritti»; 3) che il principale indiziato, tale monsignor Perlasca, non solo può diventare magicamente il principale testimone dell’accusa e così non solo evitare ogni imputazione ma persino il fastidio di comparire in tribunale per ribadire le sue accuse; 4) che chi ha in mano l’effettiva direzione del processo non è il presidente del Tribunale bensì l’Accusa, la quale può infischiarsene delle disposizioni tassative impartite dal presidente suddetto e così, ad esempio, stabilire lei quando presentare la documentazione richiesta e darne una parte solo e scegliere quale sempre a suo piacere; 5) che di conseguenza in quell’aula i tempi del processo sono quanto di più aleatorio possa immaginarsi (perfino peggio che in Italia, che è tutto dire).
A tutti questi aspetti singolari della giustizia vaticana non mi sembra che la stampa italiana abbia fin qui deciso di prestare eccessiva attenzione, e tanto meno si è mai chiesta come sia possibile, ad esempio, che autorevoli membri della magistratura del nostro Paese accettino, una volta in pensione, di far parte di un sistema giudiziario fondato in ultima istanza sul... diritto divino. Perché proprio questo è quanto ha ribadito poco tempo fa — non a caso proprio per legittimare le molte anomalie sopra indicate — uno dei rappresentanti della pubblica accusa vaticana: «È l’ordinamento canonico— ha detto — la prima fonte normativa del Vaticano, è il diritto divino la base della potestà del Papa: se non si comprende questo si va fuori strada».
Sono parole preziose. È grazie ad esse — peraltro perfettamente aderenti alla sostanza delle cose — che il processo al cardinale Becciu assume infatti il suo vero significato: quello di gettare luce sul punto che è all’origine — perlomeno all’origine immediata — della crisi che sembra ormai dilagare nella Chiesa cattolica. Che se non m’inganno è per l’appunto crisi innanzi tutto dell’autorità del Pontefice e dunque, bisogna dedurne, crisi anche della sua presunta base costituita dal diritto divino.
Il fatto è che la talpa della modernità ha scavato e continua a scavare sotto i piedi dell’istituzione ecclesiastica erodendone implacabilmente molti principi, a cominciare proprio da quello del «diritto divino» e della teocrazia ad esso collegata, nonché della costrittiva struttura gerarchica che dalla teocrazia consegue. Mezzo secolo fa il Concilio Vaticano II pensò che il cuore del problema dell’«aggiornamento» della Chiesa risiedesse essenzialmente per così dire nel suo rapporto con il mondo. Nel ruolo da attribuire ai laici e al «popolo di Dio» nonché nelle posizioni da assumere rispetto alle grandi questioni politico-sociali e culturali del nostro tempo e rispetto alle altre religioni (si chiamava non a caso «Nostra Aetate», «Nel nostro tempo», il più celebre forse dei documenti conciliari). È vero, sì, che ci si preoccupò anche di aggiornare il modo d’essere interno della Chiesa, della sua organizzazione specialmente di vertice (in verità se ne preoccupò soprattutto Paolo VI). Ma molto, decisamente molto meno fu fatto invece per aggiornare e mutare il modo d’essere interno della Chiesa, intendo il modo di pensare, di sentire e di agire, la qualità umana di coloro che vivevano nelle sue tante articolazioni. Di fare entrare aria fresca nelle ammuffite stanze dei seminari infatti oggi ormai deserti; di dare agli ordini religiosi regole compatibili con i tempi e con la dignità delle persone, di circoscrivere e circostanziare un obbligo di obbedienza troppo facile a convertirsi di continuo in sopraffazione e conformismo, di modulare diversamente il ferreo principio di cooptazione inevitabile fonte di camarille e di omertà e in definitiva di un’autorità non legittimata realmente.
Di molti di questi fallimenti oggi la storia presenta il conto. E il processo contro il cardinale Becciu, con il grottesco dilettantismo degli uffici, le ruberie e i favoritismi che emergono sullo sfondo pur se senza alcuna sua responsabilità, con gli innumerevoli arbitrii che lo punteggiano, appare davvero il palcoscenico di una teocrazia che ogni giorno perde sempre di più ogni ragion d’essere e sembra ormai alla fine. Con tanti saluti al «diritto divino».

(Corriere della Sera)