(a cura Redazione "Il sismografo") "In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.Gesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando."
Parola del Signore.
Meditazione di mons. Pierbattista Pizzaballa, Patricarca dei latini di Gerusalemme
Il Vangelo di oggi è ricco di punti interrogativi.
Le domande sono ben cinque, raccolte in soli due versetti, e sono le domande degli abitanti di un luogo molto familiare a Gesù, la sua “patria”, quindi presumibilmente Nazareth.Gesù entra nella sinagoga, e inizia ad insegnare: e questo suscita prima stupore (Mc 6,2), e poi scandalo (Mc 6,3). E le domande stanno lì, esattamente tra lo stupore e lo scandalo: sono domande che trasformano lo stupore in scandalo.
Se le leggiamo attentamente, ci accorgiamo che sono domande molto particolari per almeno due motivi.
Innanzitutto sono domande che non cercano una risposta. Sono domande che hanno già in sé una risposta, che sanno già tutto; sono un elenco di cose che già si sanno: chi è Gesù, da dove viene, cosa fa suo padre, chi sono i suoi familiari… Di per sé non dicono cose sbagliate, sono rispettose dei fatti, ma non sono domande che aprono, che vanno al di là di ciò che già si sa; sono domande che non si mettono in ascolto, domande che ascoltano solo se stesse, domande senza desiderio.
E così le domande dei Nazaretani rinchiudono questa novità inattesa, che ha fatto irruzione nella loro vita, dentro qualcosa di già noto, di già consolidato: non può accadere nulla di nuovo.
Questo non andare al di là della domanda è il tradimento della domanda stessa: l’uomo è un essere pieno di domande, ma non sempre è capace di andare fino in fondo, di assumersi il rischio di entrare in una realtà inesplorata, che può trasformargli la vita. Preferisce rimanere nell’equilibrio che si è costruito, che gli dà sicurezza, che non lo espone al pericolo di dover cambiare.
E poi quelle dei Nazaretani sono domande particolari perché non sono rivolte a nessuno: Gesù è lì con loro, davanti a loro, che li interpella con la sua Parola. Ma loro non entrano in dialogo e non si aprono all’incontro, non rivolgono a Lui i loro interrogativi. Sarebbe stata tutt’altra cosa se le stesse domande fossero state rivolte a Gesù: avrebbero aperto la via all’incontro e, quindi, alla salvezza. Li avrebbe salvati dai loro monologhi.
E anche questo rappresenta un tradimento: perché l’uomo è fatto per l’incontro e per il dialogo, per la relazione. Dio entra nella vita dell’uomo con una parola che è una domanda, una chiamata che richiede una risposta. E se l’uomo esce da questa dinamica, si ripiega, si richiude su di sé, e tradisce se stesso.
Ora, anche Gesù nel Vangelo ha delle domande.
Noi ci fermiamo solo sull’ultima, che è una domanda drammatica: sulla croce, nel momento più buio della sua vita, Gesù non ha altro se non una domanda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Anche Lui, come i Nazaretani, si trova dentro una realtà inspiegabile, che da solo non può comprendere. Ma la forza di Gesù è la relazione con il Padre, una relazione in cui c’è posto per ogni domanda, per ogni frammento di vita: niente viene escluso, per cui tutto viene salvato.
Gli abitanti di Nazareth, invece, si chiudono alla salvezza perché si chiudono alla relazione.
Il Vangelo dice che addirittura si scandalizzano: ritengono quest’uomo un inciampo, un pericolo per le loro convinzioni, per le loro certezze, e lo rifiutano.
È curioso che questo avvenga proprio alle persone che più da vicino lo avevano conosciuto, che lo avevano visto crescere: conoscere Gesù non equivale a sapere cosa fa o chi sono i suoi. Conoscerlo è rivolgere a Lui le proprie domande, soprattutto le più profonde e le più problematiche, anche quelle che noi stessi facciamo fatica ad accettare di avere; è rivolgere a Lui il proprio desiderio, la propria domanda di salvezza, come domenica scorsa abbiamo visto nel Vangelo dell’emorroissa e dalla figlia di Giairo.
E fare questo proprio come Gesù ha rivolto la sua “inaccettabile” domanda al Padre: perché in quella sua domanda ci sono tutte le domande dell’uomo.
In questo cammino di conoscenza nessuno può dirsi avvantaggiato, e dunque nemmeno svantaggiato. Svantaggiato, al limite, è solo chi si ferma a ciò che già conosce, chi si accontenta, chi non accoglie la sfida di partire dalla mancanza che lo abita, dalla propria sete spesso dolorosa; chi non accetta di essere mancante e bisognoso.
Costui si chiude da sé all’incontro, come è accaduto agli abitanti di Nazareth, dove Gesù “non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6).
Non è un caso che solo gli ammalati si siano aperti al dono di Gesù. È la conferma di quanto detto finora. Chi non ha più niente da perdere, chi non ha più nulla a cui aggrapparsi e su cui arroccarsi, allora si può aprire ad un dono che fa nuova la vita.
+ Pierbattista
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.Gesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando."
Parola del Signore.
Meditazione di mons. Pierbattista Pizzaballa, Patricarca dei latini di Gerusalemme
Il Vangelo di oggi è ricco di punti interrogativi.
Le domande sono ben cinque, raccolte in soli due versetti, e sono le domande degli abitanti di un luogo molto familiare a Gesù, la sua “patria”, quindi presumibilmente Nazareth.Gesù entra nella sinagoga, e inizia ad insegnare: e questo suscita prima stupore (Mc 6,2), e poi scandalo (Mc 6,3). E le domande stanno lì, esattamente tra lo stupore e lo scandalo: sono domande che trasformano lo stupore in scandalo.
Se le leggiamo attentamente, ci accorgiamo che sono domande molto particolari per almeno due motivi.
Innanzitutto sono domande che non cercano una risposta. Sono domande che hanno già in sé una risposta, che sanno già tutto; sono un elenco di cose che già si sanno: chi è Gesù, da dove viene, cosa fa suo padre, chi sono i suoi familiari… Di per sé non dicono cose sbagliate, sono rispettose dei fatti, ma non sono domande che aprono, che vanno al di là di ciò che già si sa; sono domande che non si mettono in ascolto, domande che ascoltano solo se stesse, domande senza desiderio.
E così le domande dei Nazaretani rinchiudono questa novità inattesa, che ha fatto irruzione nella loro vita, dentro qualcosa di già noto, di già consolidato: non può accadere nulla di nuovo.
Questo non andare al di là della domanda è il tradimento della domanda stessa: l’uomo è un essere pieno di domande, ma non sempre è capace di andare fino in fondo, di assumersi il rischio di entrare in una realtà inesplorata, che può trasformargli la vita. Preferisce rimanere nell’equilibrio che si è costruito, che gli dà sicurezza, che non lo espone al pericolo di dover cambiare.
E poi quelle dei Nazaretani sono domande particolari perché non sono rivolte a nessuno: Gesù è lì con loro, davanti a loro, che li interpella con la sua Parola. Ma loro non entrano in dialogo e non si aprono all’incontro, non rivolgono a Lui i loro interrogativi. Sarebbe stata tutt’altra cosa se le stesse domande fossero state rivolte a Gesù: avrebbero aperto la via all’incontro e, quindi, alla salvezza. Li avrebbe salvati dai loro monologhi.
E anche questo rappresenta un tradimento: perché l’uomo è fatto per l’incontro e per il dialogo, per la relazione. Dio entra nella vita dell’uomo con una parola che è una domanda, una chiamata che richiede una risposta. E se l’uomo esce da questa dinamica, si ripiega, si richiude su di sé, e tradisce se stesso.
Ora, anche Gesù nel Vangelo ha delle domande.
Noi ci fermiamo solo sull’ultima, che è una domanda drammatica: sulla croce, nel momento più buio della sua vita, Gesù non ha altro se non una domanda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Anche Lui, come i Nazaretani, si trova dentro una realtà inspiegabile, che da solo non può comprendere. Ma la forza di Gesù è la relazione con il Padre, una relazione in cui c’è posto per ogni domanda, per ogni frammento di vita: niente viene escluso, per cui tutto viene salvato.
Gli abitanti di Nazareth, invece, si chiudono alla salvezza perché si chiudono alla relazione.
Il Vangelo dice che addirittura si scandalizzano: ritengono quest’uomo un inciampo, un pericolo per le loro convinzioni, per le loro certezze, e lo rifiutano.
È curioso che questo avvenga proprio alle persone che più da vicino lo avevano conosciuto, che lo avevano visto crescere: conoscere Gesù non equivale a sapere cosa fa o chi sono i suoi. Conoscerlo è rivolgere a Lui le proprie domande, soprattutto le più profonde e le più problematiche, anche quelle che noi stessi facciamo fatica ad accettare di avere; è rivolgere a Lui il proprio desiderio, la propria domanda di salvezza, come domenica scorsa abbiamo visto nel Vangelo dell’emorroissa e dalla figlia di Giairo.
E fare questo proprio come Gesù ha rivolto la sua “inaccettabile” domanda al Padre: perché in quella sua domanda ci sono tutte le domande dell’uomo.
In questo cammino di conoscenza nessuno può dirsi avvantaggiato, e dunque nemmeno svantaggiato. Svantaggiato, al limite, è solo chi si ferma a ciò che già conosce, chi si accontenta, chi non accoglie la sfida di partire dalla mancanza che lo abita, dalla propria sete spesso dolorosa; chi non accetta di essere mancante e bisognoso.
Costui si chiude da sé all’incontro, come è accaduto agli abitanti di Nazareth, dove Gesù “non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6).
Non è un caso che solo gli ammalati si siano aperti al dono di Gesù. È la conferma di quanto detto finora. Chi non ha più niente da perdere, chi non ha più nulla a cui aggrapparsi e su cui arroccarsi, allora si può aprire ad un dono che fa nuova la vita.
+ Pierbattista