Massimo Faggioli: "Papa Francesco parla pochissimo di Vaticano II mentre lo fa, lo applica costantemente. Non ha mai mostrato interesse nella questione ermeneutica del Concilio. Non è un tema da reinterpretare ma da attualizzare e realizzare"
(a cura Redazione "Il sismografo")
(Francesco Gagliano - Luis Badilla) Massimo Faggioli ci accoglie con grande disponibilità e cordialità qualche minuto dopo aver preso parte a una diretta del programma "Il diario di Papa Francesco" di Tv2000 e lo fa senza porre limiti né di tempo né di argomenti. Da subito le sue riposte sono concise, approfondite e articolate, rivelando la sua solida formazione di storico non solo della Chiesa. M. Faggioli attualmente è Professore associato di Teologia e Direttore del "Institute for Catholicism and Citizenship at the University of St. Thomas in St. Paul" (Minnesota) e professore presso il Dipartimento di Teologia e Studi religiosi della "Villanova University" (Philadelphia). Ha pubblicato numerosi libri e saggi oltre ad aver studiato e insegnato in diverse importanti centri accademici degli Stati Uniti, del Canada e dell'Italia. Una parte importante del suo impegno universitario lo dedica a seminari e incontri internazionali su teologia, ecclesiologia e storia. Inoltre Massimo Faggioli è molto conosciuto al grande pubblico per la sua intensa, tempestiva e acuta attività giornalistica, ragion per cui i suoi articoli sono letti e commentati su diverse testate (Global Pulse Magazine, dotCommonweal Blog, Huffington Post).
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Abbiamo incontrato Massimo Faggioli lunedì 11 scorso, poche ore dopo il discorso di Papa Francesco al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede e quest'allocuzione ci ha suggerito subito la prima domanda e quindi abbiamo chiesto al nostro interlocutore:
Perché il Papa ha dedicato il 60% del suo discorso alla questione che ha chiamato crisi migratoria, usando addirittura l’aggettivo grave?
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Abbiamo incontrato Massimo Faggioli lunedì 11 scorso, poche ore dopo il discorso di Papa Francesco al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede e quest'allocuzione ci ha suggerito subito la prima domanda e quindi abbiamo chiesto al nostro interlocutore:
Perché il Papa ha dedicato il 60% del suo discorso alla questione che ha chiamato crisi migratoria, usando addirittura l’aggettivo grave?
Flussi migratori senza disegno e previsioni ...
● Perché questa è la crisi più grave, specialmente per l’Europa, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, con una differenza: le ondate di milioni di profughi dopo la guerra erano parte di un disegno diplomatico molto preciso e chiaro, era il mondo così come era stato deciso a Jalta. Erano poi profughi, penso ad esempio ai tedeschi provenienti dalla Germania est e agli ebrei che andavano ad abitare il neonato stato d’Israele, molto più facilmente assimilabili dei rifugiati di oggi. La situazione politica, a livello europeo, vede dei governi (di destra o sinistra) che hanno difficoltà nell’accettare i migranti; dal punto di vista etnico sono spesso in conflitto tra loro – gli yazidi, gli arabi cristiani, gli arabi sunniti – è quindi tutto molto più complicato, anche dal punto di vista religioso, spesso anche all’interno dello stesso universo cristiano, ad esempio nella percezione reciproca tra mondo cattolico e ortodosso. È quindi la crisi migratoria più grave degli ultimi decenni perché manca completamente un disegno diplomatico, ma anche una previsione politica che sappia intuire quali sono i fronti più urgenti dove agire. Quindi oggi il Papa, che è il personaggio più popolare che parla dell’immigrazione, deve mandare il messaggio più impopolare, è il solo che può farlo, ricordando l’importanza di non perdere se stessi nell’affrontare questa che è una vera e propria emergenza.
Quando il rischio profetico paga
Oltre a questo elemento appena analizzato, c’è secondo te qualche altro punto del discorso del Papa al corpo diplomatico che hai apprezzato o che ti ha colpito particolarmente?
● Mi ha colpito la rivendicazione della scelta di aver aperto il Giubileo della Misericordia a Bangui (Repubblica Centrafricana). Credo che abbia voluto rivendicare anche il fatto che il suo essere lì, a novembre, ha aiutato forse un certo processo e cambiamento politico in quell’area, che è un’area di guerra. Secondo me questo è stato un segnale che ha voluto mandare per dire: i gesti simbolici che io faccio poi tanto simbolici non sono, hanno delle conseguenze, non sono solo poesia. Quindi un gesto non di orgoglio ovviamente ma di rivendicazione che dice: “il rischio paga”. Penso ad esempio, a riprova di questo ragionamento, a quanto ha fatto a Cuba, ai rapporti con la Cina; se non rischi mai, se non affronti in modo diretto determinate questioni non puoi sperare di cambiarle solo con le parole. È un Papa che, in questo momento, è il solo che possa dire certe cose.
Politica - Economia - Finanza
Abbiamo l'impressione che il Papa abbia parlato molto di economia e di finanza, raramente di politica. Quando era invece a Buenos Aires ho notato invece, leggendo il suo magistero episcopale, che parlava molto di politica, inaugurando ogni anno un corso di formazione senza risparmiare critiche molto dure. Poi l’impressione che sia passato a concentrarsi, negli anni successivi, su temi come l’economia e la finanza perché ritiene che ora non valga la pena parlare di questa politica che è ostaggio di un certo tipo d’economia e finanza e lo strumento che permette questa anomalia sarebbe la corruzione: qual è la tua opinione al riguardo?
● Condivido questo tuo ragionamento con alcune sfumature: uno dei possibili motivi di questa “presa di distanza” dalla politica è che Bergoglio ha capito benissimo che una volta divenuto Francesco si è esposto, in Italia, a dei rischi specifici nei rapporti con la politica, quindi ha voluto creare una zona cuscinetto, per poter mantenere una giusta distanza tra sé e i politici italiani che tendono ad “appropriarsi” del Papa. Questa mi sembra una cosa geniale e molto importante, anche per riscattare una certa idea di pontificato agli occhi degli italiani che lo hanno visto sempre come parte della politica italiana. La seconda cosa è questa: a mio modo di vedere è vero che il Papa interpreta l’economia finanziaria come dominatrice del mondo e la stessa politica assoggettata a essa, però non insulta mai quest’ultima per un motivo simile, cosa invece che oggi, negli Stati Uniti e specialmente tra molti teologi progressisti, si sta diffondendo sempre più, perché la politica viene vista come al di là di ogni possibile salvezza, persa per sempre. Francesco conserva invece l’idea che la politica è molto importante, è una sfumatura non di poco conto perché negli Stati Uniti molti teologi cattolici avevano creduto di poter contribuire a cambiare il mondo e si sono accorti, negli ultimi venti/trent’anni, che è molto più complicato di quanto sembrasse e quindi ora tendono a rinunciare all’idea stessa della politica. Sono arrivati a pensare che il futuro del cristianesimo è in piccole comunità dove la politica, secondo il loro ragionamento, non esiste. Il Papa invece è molto chiaro nel dire che la politica è la sola cosa che può portare giustizia, che può riequilibrare le situazioni di disuguaglianza. Credo che quello che lui sta tentando di fare è riabilitare la politica ed è una cosa essenziale perché è vero che siamo in una fase di profonda crisi ma io non vedo come il mondo possa essere un posto migliore senza politica. Questa sua intenzione è uno dei pregi migliori che il Papa, secondo me, sta mostrando. Ha interpretato il momento attuale e ne sta dando una visione molto cattolica.
Riformare la Curia: l'attesa
Secondo te quali sono le insidie più grandi che si presentano ora, all’inizio del terzo anno del terzo anno di pontificato e con i progetti in cantiere (riforma della Curia, metodi e stili nel governo centrale della Chiesa, il modo stesso di dare testimonio della fede ... )?
● Io vedo che sul suo tavolo il dossier più difficile è quello della riforma della Curia, perché si sono fatti finora solo dei piccoli passi di questa nuova congregazione, i nuovi dicasteri per l’economia. L’attesa che c’è è quella di una riforma radicale, che lui sta facendo con un piano di sottrazione di competenze da Roma e restituzione ai vescovi locali, questo è molto importante e credo che debba essere accompagnata, a un certo punto, da un messaggio che faccia intendere che la Curia romana può cambiare. La struttura di questa istituzione è molto simile a quella del 1588, ogni Papa del XX secolo ha provato a riformare la Curia ma sono state tutte azioni che hanno agito solo in superficie. È chiaro che ora è necessario dare una stretta a questo processo perché è la cosa più difficile da fare. Come storico vedo la sopravvivenza di un certo tipo di modello curiale come un qualcosa che contribuisce a far credere che ci sono cose che possono sopravvivere a qualsiasi cambiamento
Francesco nella Chiesa e nella politica degli Stati Uniti
Fra poco saranno passati 6 mesi dalla visita del Papa negli Stati Uniti, che cosa è rimasto, c’è un’eredità che è stata raccolta dalla chiesa, dai cattolici e non solo?
● È rimasta una grande impressione, molto di più alla base dei cattolici americani che ai vertici dei vescovi, sappiamo che gran parte dell’episcopato statunitense è stato nominato in un determinato periodo e stanno ancora imparando a conoscere Papa Francesco. Quello che è rimasto è la sensazione, e la certezza, che si può essere cattolici negli Stati Uniti senza essere schiavi di un programma o di un partito politico, che è la tara culturale e politica della chiesa americana degli ultimi trenta/quarant’anni. Rimane inoltre l’impossibilità di rinchiudere Francesco nella scatola del progressivismo, liberalismo da una parte o del conservatorismo dall’altra; questo credo che sia un esempio di come l’agenda del Papa non è riducibile a una piattaforma di un partitico e che sfida una certa idea di essere statunitensi ovvero una certa idea di potenza, di ruolo che si ricopre nel mondo, una certa riluttanza ad usare il linguaggio della misericordia. La visita negli USA è stato un grande evento e in un certo modo era la visita più difficile ma il successo è stato totale perché Francesco si è rivelato per quello che è, senza seguire una sceneggiatura o un copione. Certo vi sono cose ancora da vedere. mi riferisco, per esempio, alle elezioni presidenziali prossime e alla condotta dei cattolici, fedeli e gerarchia.
La sfida della riforma del governo centrale della Chiesa
Ritornando alla questione della riforma della Curia, ti sembra che Francesco abbia davvero la possibilità di cambiarla o quantomeno di porre le basi per un rinnovamento? Insomma è l’uomo giusto al momento giusto?
● Io direi di si, per una serie di motivi: il primo è quello biografico, è il primo Papa che in molti decenni non ha mai studiato né lavorato a Roma, quindi parte da una notevole libertà e autonomia dalle questioni romane. Poi, per essere molto franchi, la Curia non ha mai goduto di una grande fama, il topos anticuriale e vecchissimo e oggi lo è ancora di più; il potere simbolico e politico della Curia è ai suoi minimi storici, quindi credo che questo sia il momento di cominciare a ripensarla. Io capisco bene che il Papa non abbia intenzione di investire tutto il suo pontificato in questa riforma, perché non avrebbe senso, però se neanche Francesco riuscisse ad intaccare questo sistema si creerebbe una patina d’immortalità attorno a questa istituzione che non sarebbe sana, perché non c’è notizia della Curia nei testi sacri o altrove, è una creazione totalmente umana e storica e quindi non può restare immutabile nel corso dei secoli. Questo, secondo me, è il momento d’agire perché Francesco è una Papa che non ha obblighi di riconoscenza o “investimenti” personali con la Curia romana, com’era tipico invece di Paolo VI o Giovanni XXIII. Io non sono per la distruzione della Curia, ci deve essere, per la Chiesa, un sistema di amministrazione centrale ma più si aspetta a riformare questo sistema più cresceranno le voci che vorranno la sua distruzione e questo è rischioso, perché un certo luogo per rappresentare, ad esempio, le voci delle chiese povere a livello globale deve esserci e questo Roma può farlo benissimo, però è necessario fare qualcosa prima che il sistema diventi così screditato al punto da ritenere Roma priva di alcun valore, anche simbolico.
Concilio Vaticano II: andare al di là dell’epoca delle controversie
A 50 anni dal Concilio Vaticano II pensi che Francesco sia il primo Papa che ne stia raccogliendo i frutti finalmente maturi?
● Non c’è dubbio. È il primo Papa che non ha incertezze su come il Concilio dovesse essere interpretato, doveva essere interpretato in un certo modo, ora l’abbiamo in mano noi e lo interpretiamo noi, senza riaprire controversie di trenta o quarant’anni fa. La cosa che trovo interessante è che lui parla pochissimo di Vaticano II mentre lo fa, lo applica costantemente e la cosa più affascinante è che non ha mai mostrato interesse nella questione ermeneutica del Concilio, non è un tema da reinterpretare ma da attualizzare e realizzare. Questo è il suo dono teologico: andare al di là dell’epoca delle controversie; indubbiamente queste ci sono – e io vivendo in America potrei farne una lista infinita – ma sono cose che il magistero discerne non con una dottrina imposta ma avviando un processo d’interpretazione e di recezione, perché il discernimento magisteriale del Vaticano II a suon di decreti è una di quelle cose che non hanno funzionato neanche al Concilio di Trento, quindi figuriamoci adesso. In conclusione direi che quello che Francesco sta applicando è davvero il Vaticano II e molto di più, perché sta toccando temi che per il Concilio erano precoci ma senza temere di lasciarne altri aperti, sa che alcune questioni dovranno essere affrontate in futuro e che lasciarle irrisolte e in “eredità” è già il primo passo per la loro soluzione.
● Perché questa è la crisi più grave, specialmente per l’Europa, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, con una differenza: le ondate di milioni di profughi dopo la guerra erano parte di un disegno diplomatico molto preciso e chiaro, era il mondo così come era stato deciso a Jalta. Erano poi profughi, penso ad esempio ai tedeschi provenienti dalla Germania est e agli ebrei che andavano ad abitare il neonato stato d’Israele, molto più facilmente assimilabili dei rifugiati di oggi. La situazione politica, a livello europeo, vede dei governi (di destra o sinistra) che hanno difficoltà nell’accettare i migranti; dal punto di vista etnico sono spesso in conflitto tra loro – gli yazidi, gli arabi cristiani, gli arabi sunniti – è quindi tutto molto più complicato, anche dal punto di vista religioso, spesso anche all’interno dello stesso universo cristiano, ad esempio nella percezione reciproca tra mondo cattolico e ortodosso. È quindi la crisi migratoria più grave degli ultimi decenni perché manca completamente un disegno diplomatico, ma anche una previsione politica che sappia intuire quali sono i fronti più urgenti dove agire. Quindi oggi il Papa, che è il personaggio più popolare che parla dell’immigrazione, deve mandare il messaggio più impopolare, è il solo che può farlo, ricordando l’importanza di non perdere se stessi nell’affrontare questa che è una vera e propria emergenza.
Quando il rischio profetico paga
Oltre a questo elemento appena analizzato, c’è secondo te qualche altro punto del discorso del Papa al corpo diplomatico che hai apprezzato o che ti ha colpito particolarmente?
● Mi ha colpito la rivendicazione della scelta di aver aperto il Giubileo della Misericordia a Bangui (Repubblica Centrafricana). Credo che abbia voluto rivendicare anche il fatto che il suo essere lì, a novembre, ha aiutato forse un certo processo e cambiamento politico in quell’area, che è un’area di guerra. Secondo me questo è stato un segnale che ha voluto mandare per dire: i gesti simbolici che io faccio poi tanto simbolici non sono, hanno delle conseguenze, non sono solo poesia. Quindi un gesto non di orgoglio ovviamente ma di rivendicazione che dice: “il rischio paga”. Penso ad esempio, a riprova di questo ragionamento, a quanto ha fatto a Cuba, ai rapporti con la Cina; se non rischi mai, se non affronti in modo diretto determinate questioni non puoi sperare di cambiarle solo con le parole. È un Papa che, in questo momento, è il solo che possa dire certe cose.
Politica - Economia - Finanza
Abbiamo l'impressione che il Papa abbia parlato molto di economia e di finanza, raramente di politica. Quando era invece a Buenos Aires ho notato invece, leggendo il suo magistero episcopale, che parlava molto di politica, inaugurando ogni anno un corso di formazione senza risparmiare critiche molto dure. Poi l’impressione che sia passato a concentrarsi, negli anni successivi, su temi come l’economia e la finanza perché ritiene che ora non valga la pena parlare di questa politica che è ostaggio di un certo tipo d’economia e finanza e lo strumento che permette questa anomalia sarebbe la corruzione: qual è la tua opinione al riguardo?
● Condivido questo tuo ragionamento con alcune sfumature: uno dei possibili motivi di questa “presa di distanza” dalla politica è che Bergoglio ha capito benissimo che una volta divenuto Francesco si è esposto, in Italia, a dei rischi specifici nei rapporti con la politica, quindi ha voluto creare una zona cuscinetto, per poter mantenere una giusta distanza tra sé e i politici italiani che tendono ad “appropriarsi” del Papa. Questa mi sembra una cosa geniale e molto importante, anche per riscattare una certa idea di pontificato agli occhi degli italiani che lo hanno visto sempre come parte della politica italiana. La seconda cosa è questa: a mio modo di vedere è vero che il Papa interpreta l’economia finanziaria come dominatrice del mondo e la stessa politica assoggettata a essa, però non insulta mai quest’ultima per un motivo simile, cosa invece che oggi, negli Stati Uniti e specialmente tra molti teologi progressisti, si sta diffondendo sempre più, perché la politica viene vista come al di là di ogni possibile salvezza, persa per sempre. Francesco conserva invece l’idea che la politica è molto importante, è una sfumatura non di poco conto perché negli Stati Uniti molti teologi cattolici avevano creduto di poter contribuire a cambiare il mondo e si sono accorti, negli ultimi venti/trent’anni, che è molto più complicato di quanto sembrasse e quindi ora tendono a rinunciare all’idea stessa della politica. Sono arrivati a pensare che il futuro del cristianesimo è in piccole comunità dove la politica, secondo il loro ragionamento, non esiste. Il Papa invece è molto chiaro nel dire che la politica è la sola cosa che può portare giustizia, che può riequilibrare le situazioni di disuguaglianza. Credo che quello che lui sta tentando di fare è riabilitare la politica ed è una cosa essenziale perché è vero che siamo in una fase di profonda crisi ma io non vedo come il mondo possa essere un posto migliore senza politica. Questa sua intenzione è uno dei pregi migliori che il Papa, secondo me, sta mostrando. Ha interpretato il momento attuale e ne sta dando una visione molto cattolica.
Riformare la Curia: l'attesa
Secondo te quali sono le insidie più grandi che si presentano ora, all’inizio del terzo anno del terzo anno di pontificato e con i progetti in cantiere (riforma della Curia, metodi e stili nel governo centrale della Chiesa, il modo stesso di dare testimonio della fede ... )?
● Io vedo che sul suo tavolo il dossier più difficile è quello della riforma della Curia, perché si sono fatti finora solo dei piccoli passi di questa nuova congregazione, i nuovi dicasteri per l’economia. L’attesa che c’è è quella di una riforma radicale, che lui sta facendo con un piano di sottrazione di competenze da Roma e restituzione ai vescovi locali, questo è molto importante e credo che debba essere accompagnata, a un certo punto, da un messaggio che faccia intendere che la Curia romana può cambiare. La struttura di questa istituzione è molto simile a quella del 1588, ogni Papa del XX secolo ha provato a riformare la Curia ma sono state tutte azioni che hanno agito solo in superficie. È chiaro che ora è necessario dare una stretta a questo processo perché è la cosa più difficile da fare. Come storico vedo la sopravvivenza di un certo tipo di modello curiale come un qualcosa che contribuisce a far credere che ci sono cose che possono sopravvivere a qualsiasi cambiamento
Francesco nella Chiesa e nella politica degli Stati Uniti
Fra poco saranno passati 6 mesi dalla visita del Papa negli Stati Uniti, che cosa è rimasto, c’è un’eredità che è stata raccolta dalla chiesa, dai cattolici e non solo?
● È rimasta una grande impressione, molto di più alla base dei cattolici americani che ai vertici dei vescovi, sappiamo che gran parte dell’episcopato statunitense è stato nominato in un determinato periodo e stanno ancora imparando a conoscere Papa Francesco. Quello che è rimasto è la sensazione, e la certezza, che si può essere cattolici negli Stati Uniti senza essere schiavi di un programma o di un partito politico, che è la tara culturale e politica della chiesa americana degli ultimi trenta/quarant’anni. Rimane inoltre l’impossibilità di rinchiudere Francesco nella scatola del progressivismo, liberalismo da una parte o del conservatorismo dall’altra; questo credo che sia un esempio di come l’agenda del Papa non è riducibile a una piattaforma di un partitico e che sfida una certa idea di essere statunitensi ovvero una certa idea di potenza, di ruolo che si ricopre nel mondo, una certa riluttanza ad usare il linguaggio della misericordia. La visita negli USA è stato un grande evento e in un certo modo era la visita più difficile ma il successo è stato totale perché Francesco si è rivelato per quello che è, senza seguire una sceneggiatura o un copione. Certo vi sono cose ancora da vedere. mi riferisco, per esempio, alle elezioni presidenziali prossime e alla condotta dei cattolici, fedeli e gerarchia.
La sfida della riforma del governo centrale della Chiesa
Ritornando alla questione della riforma della Curia, ti sembra che Francesco abbia davvero la possibilità di cambiarla o quantomeno di porre le basi per un rinnovamento? Insomma è l’uomo giusto al momento giusto?
● Io direi di si, per una serie di motivi: il primo è quello biografico, è il primo Papa che in molti decenni non ha mai studiato né lavorato a Roma, quindi parte da una notevole libertà e autonomia dalle questioni romane. Poi, per essere molto franchi, la Curia non ha mai goduto di una grande fama, il topos anticuriale e vecchissimo e oggi lo è ancora di più; il potere simbolico e politico della Curia è ai suoi minimi storici, quindi credo che questo sia il momento di cominciare a ripensarla. Io capisco bene che il Papa non abbia intenzione di investire tutto il suo pontificato in questa riforma, perché non avrebbe senso, però se neanche Francesco riuscisse ad intaccare questo sistema si creerebbe una patina d’immortalità attorno a questa istituzione che non sarebbe sana, perché non c’è notizia della Curia nei testi sacri o altrove, è una creazione totalmente umana e storica e quindi non può restare immutabile nel corso dei secoli. Questo, secondo me, è il momento d’agire perché Francesco è una Papa che non ha obblighi di riconoscenza o “investimenti” personali con la Curia romana, com’era tipico invece di Paolo VI o Giovanni XXIII. Io non sono per la distruzione della Curia, ci deve essere, per la Chiesa, un sistema di amministrazione centrale ma più si aspetta a riformare questo sistema più cresceranno le voci che vorranno la sua distruzione e questo è rischioso, perché un certo luogo per rappresentare, ad esempio, le voci delle chiese povere a livello globale deve esserci e questo Roma può farlo benissimo, però è necessario fare qualcosa prima che il sistema diventi così screditato al punto da ritenere Roma priva di alcun valore, anche simbolico.
Concilio Vaticano II: andare al di là dell’epoca delle controversie
A 50 anni dal Concilio Vaticano II pensi che Francesco sia il primo Papa che ne stia raccogliendo i frutti finalmente maturi?
● Non c’è dubbio. È il primo Papa che non ha incertezze su come il Concilio dovesse essere interpretato, doveva essere interpretato in un certo modo, ora l’abbiamo in mano noi e lo interpretiamo noi, senza riaprire controversie di trenta o quarant’anni fa. La cosa che trovo interessante è che lui parla pochissimo di Vaticano II mentre lo fa, lo applica costantemente e la cosa più affascinante è che non ha mai mostrato interesse nella questione ermeneutica del Concilio, non è un tema da reinterpretare ma da attualizzare e realizzare. Questo è il suo dono teologico: andare al di là dell’epoca delle controversie; indubbiamente queste ci sono – e io vivendo in America potrei farne una lista infinita – ma sono cose che il magistero discerne non con una dottrina imposta ma avviando un processo d’interpretazione e di recezione, perché il discernimento magisteriale del Vaticano II a suon di decreti è una di quelle cose che non hanno funzionato neanche al Concilio di Trento, quindi figuriamoci adesso. In conclusione direi che quello che Francesco sta applicando è davvero il Vaticano II e molto di più, perché sta toccando temi che per il Concilio erano precoci ma senza temere di lasciarne altri aperti, sa che alcune questioni dovranno essere affrontate in futuro e che lasciarle irrisolte e in “eredità” è già il primo passo per la loro soluzione.