Vaticano
(a cura Redazione "Il sismografo")
Doveva essere il Duemila, e, come ogni anno, era uscita una canzone che avrebbe fatto da tormentone per tutta l’estate. “Depende”, era il titolo originale, e la cantava Pau Donés, accompagnato dagli Jarabe de Palo, il gruppo spagnolo da lui fondato e che suonava un rock latino. Il motivo era molto orecchiabile, e le parole non male, avevano un contenuto, specialmente il refrain. “De según como se mire, todo depende”: da come uno guarda, tutto dipende. E che poi, nella versione italiana, era stato leggermente modificato: “Da che punto guardi il mondo…”. Verissimo. Le cose cambiano, e anche di molto, a seconda della visuale da cui si osservino.
Ora, l’accostamento potrà anche sembrare forzato, se non sconveniente. Eppure, quel refrain, ovviamente senza volerlo, aiuta a capire, in maniera semplice e diretta, il significato della grande trasformazione che il pontificato di Francesco sta operando. Perché, quello che adesso si percepisce solo come un cambiamento di prospettive, solo come un modo diverso di guardare la realtà, non più dal centro ma dalla periferia, potrebbe incidere sempre più fortemente sulla vita della Chiesa e anche dell’umanità. Una volta ritrovata la sua centralità, il Vangelo non ha più confini, non si ferma di fronte ad alcun ostacolo, e neppure ai rifiuti più ostinati.
Ora, l’accostamento potrà anche sembrare forzato, se non sconveniente. Eppure, quel refrain, ovviamente senza volerlo, aiuta a capire, in maniera semplice e diretta, il significato della grande trasformazione che il pontificato di Francesco sta operando. Perché, quello che adesso si percepisce solo come un cambiamento di prospettive, solo come un modo diverso di guardare la realtà, non più dal centro ma dalla periferia, potrebbe incidere sempre più fortemente sulla vita della Chiesa e anche dell’umanità. Una volta ritrovata la sua centralità, il Vangelo non ha più confini, non si ferma di fronte ad alcun ostacolo, e neppure ai rifiuti più ostinati.
C’è qui tutta la novità rappresentata dal primo Papa latino- americano, e che, infrangendo il secolare “predominio” europeo, ha dato finalmente un senso compiuto, e cioè reale, concreto, alla cattolicità, alla universalità della Chiesa. C’è naturalmente tutta la sensibilità umana e spirituale di Jorge Bergoglio, tutto il suo patrimonio pastorale e missionario. C’è l’esperienza personale che ha fatto della povertà, dei poveri. E c’è, soprattutto, la convinzione che soltanto a partire da qui, da questa esperienza, sia possibile avere una visione più completa, pur nelle sue diverse espressioni, della storia umana. E, quindi, che sia possibile dare una risposta, la vera risposta, ai bisogni profondi di ogni uomo, a qualsiasi razza o religione appartenga. Spostamento verso Sud E poi, c’è un’altra novità, all’origine di questo processo di trasformazione. C’è la novità rappresentata dal progressivo spostamento del baricentro della Chiesa verso il Sud del mondo, verso le regioni dove vivono il settanta per cento dei cristiani. Dopo un primo millennio che aveva visto come protagoniste le Chiese orientali, e nel secondo quelle occidentali, adesso dovrebbero via via imporsi l’originalità e la vitalità delle giovani comunità dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina, dell’Australia. E questo, fatta salva l’unità, segnerà lo sbocciare di una Chiesa caratterizzata anche dalla pluralità, anche da una legittima diversità.
Si spiega così la grande attenzione che papa Francesco – nei discorsi, nelle scelte dei Paesi da visitare durante i viaggi, e nella stessa opera di governo – sta riservando sempre più alle periferie. È una strategia a tutto campo, universale, e che si snoda su un reticolo di situazioni e di problematiche le più diverse, le più distanti. Ma tutte convergenti verso un unico obiettivo: l’esigenza di un cambiamento che vada nella direzione di una esistenza più umana, di una vera giustizia. Ad esempio, le periferie cosiddette esistenziali, a cominciare dalle coppie “ferite”, i divorziati risposati, dei quali si sono occupati i due Sinodi sulla famiglia. E le periferie geografiche, che Francesco ha esaltato aprendo il Giubileo della misericordia non a Roma, com’era sempre stato, ma andando nella Repubblica centrafricana, a Bangui, proclamata appunto “capitale spirituale del mondo”. Oppure, le periferie ecumeniche, con i gesti di riconciliazione che il Papa ha compiuto nei confronti di due Comunità cristiane che in Italia hanno avuto una storia molto travagliata, i valdesi e i pentecostali. E ancora, le periferie per così dire “politiche”, ossia i Paesi più poveri, più abbandonati, e che spesso hanno rappresentato invece le tappe più significative dei pellegrinaggi pontifici. E poi, le tante periferie del dolore. Che sono spuntate a causa di una migrazione di massa così sconvolgente, così angosciosa, da riproporre lo scenario dei grandi esodi biblici. Milioni di donne e di uomini sradicati dalle loro case, da terre ormai pericolose, in fuga dalle guerre, dalle persecuzioni, anche religiose, o dalla fame, dalla miseria. E dopo il trauma del distacco, dopo essere riusciti a sopravvivere alle mille insidie di viaggi disperati, il dramma di sentirsi respinti da gente ostile, chiusa alla generosità. Una Via crucis che anche papa Bergoglio ha voluto percorrere: da Lampedusa, di fronte a un mare diventato un cimitero, e che ha inghiottito migliaia di esseri umani; a Ciudad Juárez, in Messico, davanti alla rete metallica tirata su per impedire ai migranti latino-americani di entrare illegalmente negli Stati Uniti; a Lesbo, un’isola che era ormai quasi un carcere, perché l’Europa aveva ricominciato ad alzare muri, a chiudere le frontiere. E proprio da Lesbo, portando con sé tre famiglie siriane, tutte musulmane, il Papa ha lanciato un messaggio forte, provocatorio: nel segno di una solidarietà che muove dal riconoscimento della dignità di ogni singola persona, del diritto di ciascuno a vivere in pace; e nel segno di una testimonianza religiosa che non esclude chi abbia una fede diversa. È stato criticato, Bergoglio, per non aver “pensato” anche a una famiglia cristiana (e comunque lo farà, due mesi dopo). Ma così, il suo gesto, seppure molto simbolico, solo una goccia nel mare dell’esodo siriano, potrebbe aver fatto breccia nel cuore di tanti musulmani, predisponendoli a una pacifica convivenza con le minoranze cristiane.
La periferia diventa “centro”
Grazie a papa Francesco, perciò, ogni periferia diventa “centro”. Diventa il luogo – unico, privilegiato – per annunciare la misericordia di Dio. Ma dove, proprio a partire da lì, la Chiesa universale è chiamata a riprendere coscienza della propria natura, della propria missione, insomma, a interrogarsi se sia davvero fedele alla parola di Dio. Dunque, la periferia che, con le sue peculiarità, i suoi carismi e le sue ricchezze, specialmente in fatto di spiritualità e di esperienze pastorali, può non solo apportare nuova linfa vitale a certe Chiese antiche, ormai appassite, ripiegate su se stesse; ma far da ispirazione all’intero cattolicesimo, e, in qualche modo, aiutarlo a ridefinire la propria identità, le linee della propria azione. Qualcosa del genere, del resto, Bergoglio l’ha già fatta, dando una nuova “architettura” alla comunione ecclesiale; e, soprattutto, dimostrando come il primato petrino possa farsi concretamente espressione del ministero collegiale dei vescovi. Nella enciclica Laudato sì, il Papa ha richiamato i documenti di una ventina di episcopati, per lo più dell’emisfero meridionale. Come dire che sono state le “periferie”, sulla base delle proprie esperienze, a conferire più forza e credibilità alla riflessione pontificia, e ad arricchirne i contenuti, sia per la denuncia dello spaventoso sfruttamento del creato, sia per l’invito a promuovere una “ecologia integrale”, tenendo strettamente uniti rispetto della natura e rispetto dell’uomo. E così, grazie appunto a Francesco, e ai “riflettori” che per la sua presenza si accendono su un determinato Paese, ogni periferia diventa protagonista, acquista finalmente “voce”. Può raccontare la propria storia, e far conoscere le vere cause della povertà, dell’esclusione, dell’emarginazione, di cui soffre quel popolo. E dunque, proprio da lì, dai luoghi finora più oscuri, più ignorati, più calpestati, sale un potentissimo grido di accusa che rompe tanto gli schemi della geopolitica quanto i meccanismi del potere economico-finanziario. Chiedendo con forza un cambiamento dei modelli di sviluppo, e, perciò, un nuovo “centro” per un nuovo ordine mondiale.
Un papato “in progress”
Forse è stato finora poco considerato, se non sottovalutato, l’enorme impatto che l’elezione di un Papa latino- americano ha avuto sui Paesi e sui popoli del Sud. Da un lato, è certamente un fatto positivo, perché potrà aiutare il processo di riequilibrio tra le diverse aree del pianeta. Dall’altro lato, però, c’è da stare attenti, per l’uso strumentale che certi capipopolo e certi movimenti, specialmente in America Latina, tendono a fare del sostegno papale. E anche perché – com’è sembrato per la Laudato sì – la troppo accentuata identificazione del magistero sociale di Francesco con la “periferia”, e cioè con posizioni fortemente negative nei confronti dell’economia di mercato, e quindi anche di un capitalismo liberale, potrebbe provocare delle chiusure sul fronte opposto. Sono le inevitabili contraddizioni di una rivoluzione senza precedenti, perché molto decisa, molto profonda, e perché investe una istituzione come la Chiesa cattolica, secolarmente allergica alle riforme troppo spinte. E sono gli inevitabili inconvenienti di un papato, per così dire, in progress: ovvero, un papato caratterizzato da una “fantasia” creativa, dall’apertura di sempre nuove prospettive, e, di conseguenza, sottoposto a una accelerazione continua, talvolta quasi frenetica. È la “Chiesa in uscita”, che vuole Francesco; la Chiesa che, lui ripete spesso, se per evangelizzare non uscisse da se stessa, se non fosse sempre in movimento, diventerebbe autoreferenziale, “si ammalerebbe”.
Due poli contrapposti
Ma, proprio per questo, è una rivoluzione che viene a trovarsi costantemente in uno stato di tensione tra due poli contrapposti: tra cambiamento e opposizione al cambiamento. Basta ripercorrere gli eventi dell’ultimo anno di pontificato: il documento del Papa che ha riproposto le conclusioni dei Sinodi sulla famiglia, il Giubileo straordinario della misericordia, l’enciclica sulla crisi ecologica, i grandi incontri ecumenici, i viaggi, l’attività internazionale a sostegno della pace e della giustizia; ebbene, basta ripercorrere questo cammino, e si vedrà come in ogni iniziativa, in ogni decisione, in ogni gesto di Francesco, all’aspetto della novità (e quindi della “provocazione destabilizzante”, come diceva il cardinale Scola) si contrapponga generalmente l’aspetto della resistenza, se non del contrasto, da parte di quanti – persone, gruppi o istituzioni, dentro o fuori del Vaticano – sono contrari a quell’iniziativa, a quella decisione, a quel gesto. Va anche detto, però, che non è raro il caso in cui un atto di papa Bergoglio, prima fortemente criticato, si sia poi rivelato una intuizione profetica. Solo un esempio, ma molto significativo. Alla fine del 2015, Francesco aveva in programma un viaggio in Africa. Era il periodo in cui c’erano stati orrendi massacri da parte dell’Isis; e c’era giustamente il timore che il terrorismo islamico, attirato dalla risonanza mediatica che un atto del genere avrebbe avuto, potesse organizzare – specialmente in Kenya – un attentato: con decine di migliaia di persone attorno al Papa, in una delle celebrazioni pubbliche, sarebbe stata una strage. E poi, nella Repubblica Centrafricana, continuava quello scontro sanguinoso. Una guerra civile ma, di fatto, con una matrice “religiosa”: milizie musulmane contro milizie filocristiane. I due capi, grazie alla mediazione vaticana, avevano stipulato un patto di non aggressione durante la visita pontificia; ma si sapeva che, all’interno dei due schieramenti, molti non erano d’accordo. Avrebbero rispettato la tregua?
La vittoria della fede
I servizi di sicurezza di vari Paesi continuavano a insistere: sarebbe stato troppo pericoloso. Il Califfato avrebbe potuto prenderla per una provocazione, e comunque non sarebbe stato in grado di bloccare in anticipo le solite schegge impazzite. Invece, spiazzando tutti, Bergoglio ha deciso di andarci, in Africa. Sentiva che era suo dovere portare – nel continente simbolo di tutte le periferie del mondo – il messaggio del Dio dell’amore, della misericordia, della speranza. E poi, recandosi in regioni martoriate da un conflitto tra cristiani e musulmani, il Papa pensava fosse di grande importanza dimostrare, in prima persona, come la riconciliazione e la convivenza tra religioni possano essere un elemento decisivo per ristabilire la pace tra gli uomini, tra i popoli. Era stata, perciò, una testimonianza di coraggio evangelico. Una testimonianza nel segno della fede, della forza della fede, pur nella sua apparente inermità. Al punto da far immaginare che, quell’andare lì del Papa, quel suo richiamo al Dio unico, quella sua visita in Centrafrica alla moschea di Koudoukou, potrebbero aver avuto un effetto per così dire “deterrente” sui terroristi, sui loro progetti assassini. Quel viaggio ha avuto un risvolto, forse irrilevante o forse no. Eugenio Scalfari (venendo meno, come al solito, al riserbo a cui sarebbe tenuto) ha raccontato che Francesco, il giorno dopo il ritorno dall’Africa, gli ha telefonato esordendo: “Pronto, sono un rivoluzionario…”. Era stato lo stesso Scalfari, in un precedente articolo su La Repubblica, a dargli del “rivoluzionario”, e Bergoglio, ripetendolo, voleva in qualche modo prenderlo benevolmente in giro. Anzi, quella volta, lo stesso giornalista se ne è accorto: “Lui spesso ha anche un linguaggio affettuosamente ironico…”. Ma, al di là dello scherzo, della battuta, non c’era un fondo di verità? Quel viaggio non era stato, nel senso più autentico, un gesto rivoluzionario, una vittoria della fede sulla violenza?
Francesco l'incendiario - Un papato tra resistenze, contraddizioni e riforme Edizione Tau