“Un grande programma nel segno di Roncalli”. Intervista a Loris Capovilla
La Repubblica
(Paolo Rodari) «La Chiesa della misericordia è la stessa che voleva Giovanni XXIII, una Chiesa che condanna il peccato ma non il peccatore. Anzi, non chiude le porte in faccia a nessuno. “Chi sono io per giudicare un gay?”, si chiese Francesco. “La bestemmia è un peccato orribile ma chi bestemmia resta mio fratello”, disse a sua volta Papa Roncalli ». Loris Capovilla, 100 anni il prossimo ottobre e membro più anziano del collegio cardinalizio, ricorda gli anni in cui, seguendo come segretario particolare il pontificato di Roncalli, fu testimone «della volontà della Chiesa di apertura verso tutti».
Una Chiesa che da societas inaequalis diveniva popolo di Dio?
«Esattamente. Una Chiesa che Giovanni XXIII riteneva dovesse portare al mondo la “medicina della misericordia”. La società a suo avviso era malata. E la Chiesa doveva curarla non con una riproposizione sterile della dottrina di sempre, ma con l’amore di Gesù che si piega sui sofferenti e sui peccatori».
E dopo più di cinquant’anni siamo ancora allo stesso punto?
«Se Francesco ha convocato un Giubileo della misericordia evidentemente ritiene che di essa vi sia bisogno. Ieri, fra l’altro era l’anniversario della “Pacem in terris”, l’enciclica che spiegò come non si possa avere pace fuori dalla verità, dalla giustizia, dall’amore e dalla libertà. Sono i caposaldi a cui ancora oggi occorre tornare, per portare la Chiesa e il mondo oltre le piccolezze, le chiacchiere, il pettegolezzo...».
La misericordia è per la Chiesa sostanza oppure corollario?
«È un grande programma. Quando Papa Giovanni ha citato la misericordia l’ha fatto aprendo il Concilio e ricordando che certamente esso avrebbe dovuto lavorare non dimentico dei venti Concili precedenti, ma anche andando oltre, perché il cuore di Dio è “miserum cor”, straziato, e si rompe a vedere un mondo che non riconosce di essere da lui amato. Se uno pensa diversamente da me, io non divengo il suo giudice. La bontà è l’unica strada percorribile».
La Repubblica, 12 aprile 2015
Una Chiesa che da societas inaequalis diveniva popolo di Dio?
«Esattamente. Una Chiesa che Giovanni XXIII riteneva dovesse portare al mondo la “medicina della misericordia”. La società a suo avviso era malata. E la Chiesa doveva curarla non con una riproposizione sterile della dottrina di sempre, ma con l’amore di Gesù che si piega sui sofferenti e sui peccatori».
E dopo più di cinquant’anni siamo ancora allo stesso punto?
«Se Francesco ha convocato un Giubileo della misericordia evidentemente ritiene che di essa vi sia bisogno. Ieri, fra l’altro era l’anniversario della “Pacem in terris”, l’enciclica che spiegò come non si possa avere pace fuori dalla verità, dalla giustizia, dall’amore e dalla libertà. Sono i caposaldi a cui ancora oggi occorre tornare, per portare la Chiesa e il mondo oltre le piccolezze, le chiacchiere, il pettegolezzo...».
La misericordia è per la Chiesa sostanza oppure corollario?
«È un grande programma. Quando Papa Giovanni ha citato la misericordia l’ha fatto aprendo il Concilio e ricordando che certamente esso avrebbe dovuto lavorare non dimentico dei venti Concili precedenti, ma anche andando oltre, perché il cuore di Dio è “miserum cor”, straziato, e si rompe a vedere un mondo che non riconosce di essere da lui amato. Se uno pensa diversamente da me, io non divengo il suo giudice. La bontà è l’unica strada percorribile».
La Repubblica, 12 aprile 2015