Il cardinale Stella con i seminaristi dell’Avana. Come un giardino
L'Osservatore Romano
La vocazione sacerdotale è come un giardino, a volte abbandonato, a volte ben curato. Ha scelto questa immagine il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il clero — in visita in questi giorni a Cuba — per spiegare in modo efficace il legame tra spiritualità e servizio evangelico. Ad ascoltarlo i presbiteri e i seminaristi del seminario dell’Avana, riuniti nel pomeriggio di domenica 26 aprile.
Quando il giardino è abbandonato, ha fatto notare il porporato, crescono le sterpaglie. Quando a un sacerdote o a un seminarista manca l’alimento quotidiano, infatti, «germogliano nel suo cuore le erbacce», ossia desideri di possedere cose materiali, distrazioni, ambizione di potere, compensazioni affettive, sentimenti di solitudine e abbandono, risentimenti». Nella maggior parte dei casi di dispensa che giungono al dicastero, ha rivelato il cardinale, si riscontra un certo «abbandono della preghiera e un’assenza grande di accompagnamento». È proprio quando il giardino è abbandonato che le erbacce crescono e ne confondono i contorni stessi. Il risultato finale è la desertificazione. Se manca, quindi, la cura necessaria, il giardino si trasformerà in un deserto. «Possiamo porre in gioco tutta la vita — ha detto — o andare all’altro lato del mondo per evangelizzare, ma se manca la vita spirituale ogni sforzo sarà vano».
Al contrario, il giardiniere che cura il suo giardino «estirpa le erbacce, annaffia abbondantemente e pota le piante al momento giusto, fa brillare la bellezza e l’armonia del giardino». Allo stesso modo, quando nella vita spirituale di un sacerdote o di un seminarista «abbonda il dono della grazia, germogliano al nel suo intimo i frutti dello Spirito: la generosità nella missione, l’esempio di vita, la comunione con il presbiterio, il vescovo e tutti i fedeli, la gratuità, la gioia, l’amabilità verso tutti, la disponibilità, la solidarietà con i poveri».
Tra i frutti della vita spirituale del sacerdote spicca il servizio evangelico, quale «perla preziosa». Non si tratta, ha rilevato il cardinale, «di un mero atteggiamento di servizio, ma di seguire il modello di Cristo, che si fa servo e schiavo, dando la vita per la redenzione di tutti». Questo è il criterio fondamentale per «il discernimento di tutte le vocazioni e in modo specifico della vocazione sacerdotale». Infatti, il ministero sacerdotale non si prepara in base «a un maquillage superficiale. Non si tratta di rappresentare bene un ruolo, nemmeno di farlo con efficacia. Consiste piuttosto nel vivere la carità pastorale».
Il porporato ha poi spiegato in cosa consiste il processo formativo che sviluppa nei seminaristi due aspetti essenziali: spiritualità sacerdotale e servizio evangelico. In un primo momento è necessario «un lavoro di pulizia, che si può identificare con il corso propedeutico». Questa pulizia, ha detto, si effettua all’inizio della formazione: «Si tratta di abbandonare certe abitudini e iniziarne altre nuove». Un frutto molto speciale del primo anno di formazione «consiste nell’abbandonare la prospettiva della comodità per rimanere disponibili al servizio».
Il secondo momento «suppone un passo di maturazione nella vita dei discepoli. Possiamo identificarlo con la tappa filosofica». La spiritualità si edifica ora «per mezzo dell’acquisizione delle abitudini che si stabiliscono per sempre, e in questo senso cominciamo già a utilizzare un linguaggio definitivo». Un frutto di questo secondo momento formativo è il servizio evangelico.
Il terzo momento è «già più vicino alla spiritualità sacerdotale». I seminaristi della tappa teologica devono «comportarsi già come se fossero sacerdoti. Mantenendo le abitudini che si svilupparono durante la tappa anteriore, ora sviluppano le virtù e gli atteggiamenti sacerdotali». Ciò è tutto quello che «esprime l’identità di un ministro del Vangelo».
Esiste ancora una quarto momento che si chiama diaconale, perché un tempo lungo «di questa tappa viene occupato dal diaconato transitorio», dove risaltano in modo speciale la spiritualità e il servizio.
L'Osservatore Romano, 28 aprile 2015
Quando il giardino è abbandonato, ha fatto notare il porporato, crescono le sterpaglie. Quando a un sacerdote o a un seminarista manca l’alimento quotidiano, infatti, «germogliano nel suo cuore le erbacce», ossia desideri di possedere cose materiali, distrazioni, ambizione di potere, compensazioni affettive, sentimenti di solitudine e abbandono, risentimenti». Nella maggior parte dei casi di dispensa che giungono al dicastero, ha rivelato il cardinale, si riscontra un certo «abbandono della preghiera e un’assenza grande di accompagnamento». È proprio quando il giardino è abbandonato che le erbacce crescono e ne confondono i contorni stessi. Il risultato finale è la desertificazione. Se manca, quindi, la cura necessaria, il giardino si trasformerà in un deserto. «Possiamo porre in gioco tutta la vita — ha detto — o andare all’altro lato del mondo per evangelizzare, ma se manca la vita spirituale ogni sforzo sarà vano».
Al contrario, il giardiniere che cura il suo giardino «estirpa le erbacce, annaffia abbondantemente e pota le piante al momento giusto, fa brillare la bellezza e l’armonia del giardino». Allo stesso modo, quando nella vita spirituale di un sacerdote o di un seminarista «abbonda il dono della grazia, germogliano al nel suo intimo i frutti dello Spirito: la generosità nella missione, l’esempio di vita, la comunione con il presbiterio, il vescovo e tutti i fedeli, la gratuità, la gioia, l’amabilità verso tutti, la disponibilità, la solidarietà con i poveri».
Tra i frutti della vita spirituale del sacerdote spicca il servizio evangelico, quale «perla preziosa». Non si tratta, ha rilevato il cardinale, «di un mero atteggiamento di servizio, ma di seguire il modello di Cristo, che si fa servo e schiavo, dando la vita per la redenzione di tutti». Questo è il criterio fondamentale per «il discernimento di tutte le vocazioni e in modo specifico della vocazione sacerdotale». Infatti, il ministero sacerdotale non si prepara in base «a un maquillage superficiale. Non si tratta di rappresentare bene un ruolo, nemmeno di farlo con efficacia. Consiste piuttosto nel vivere la carità pastorale».
Il porporato ha poi spiegato in cosa consiste il processo formativo che sviluppa nei seminaristi due aspetti essenziali: spiritualità sacerdotale e servizio evangelico. In un primo momento è necessario «un lavoro di pulizia, che si può identificare con il corso propedeutico». Questa pulizia, ha detto, si effettua all’inizio della formazione: «Si tratta di abbandonare certe abitudini e iniziarne altre nuove». Un frutto molto speciale del primo anno di formazione «consiste nell’abbandonare la prospettiva della comodità per rimanere disponibili al servizio».
Il secondo momento «suppone un passo di maturazione nella vita dei discepoli. Possiamo identificarlo con la tappa filosofica». La spiritualità si edifica ora «per mezzo dell’acquisizione delle abitudini che si stabiliscono per sempre, e in questo senso cominciamo già a utilizzare un linguaggio definitivo». Un frutto di questo secondo momento formativo è il servizio evangelico.
Il terzo momento è «già più vicino alla spiritualità sacerdotale». I seminaristi della tappa teologica devono «comportarsi già come se fossero sacerdoti. Mantenendo le abitudini che si svilupparono durante la tappa anteriore, ora sviluppano le virtù e gli atteggiamenti sacerdotali». Ciò è tutto quello che «esprime l’identità di un ministro del Vangelo».
Esiste ancora una quarto momento che si chiama diaconale, perché un tempo lungo «di questa tappa viene occupato dal diaconato transitorio», dove risaltano in modo speciale la spiritualità e il servizio.
L'Osservatore Romano, 28 aprile 2015