L'Osservatore Romano
(Nicola Gori) In un mondo dominato dalle logiche di mercato, dev’essere il Vangelo il criterio fondamentale per la gestione dei beni nelle comunità religiose. Per questo la Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica pubblicherà nei prossimi giorni alcune linee orientative sull’economia. Il documento è frutto anche del simposio sull’economia svoltosi all’Antonianum nel marzo scorso.
Lo annuncia in questa intervista al nostro giornale il cardinale prefetto João Braz de Aviz, che traccia inoltre un identikit del religioso secondo gli insegnamenti di Papa Francesco.
La gestione dei beni patrimoniali delle comunità religiose in un tempo di crisi di vocazioni e anche di crisi economica costituisce una duplice sfida. Come affrontarla?
L’argomento è di scottante attualità. Per questo Papa Francesco ha voluto che gli si dedicasse un simposio. E noi abbiamo provveduto a organizzarlo dall’8 al 9 marzo scorsi alla Pontificia università Antonianum. Il tema dei lavori riguardava proprio la gestione dei beni ecclesiastici religiosi «a servizio dell’humanum e della missione della Chiesa». E abbiamo riscontrato una grande esigenza di qualcosa di più profondo e di nuovo in questo ambito. Lo abbiamo capito quando abbiamo visto la sensibilità dei religiosi nel partecipare al simposio. Ci siamo preparati per ricevere quattrocento persone, invece, non solo ne sono venute seicento, ma ne sono rimaste fuori altre cinquecento.
A cosa si deve questa grande aspettativa?
Al fatto che il problema è reale. Da un lato c’è una nuova fioritura di monasteri, eremi, congregazioni, nuove società di vita apostolica, ma dall’altra c’è un declino abbastanza accentuato di alcune realtà. Tale declino pone degli interrogativi riguardo ai beni. Questi patrimoni a chi vanno? Come fare? E questo è solo un aspetto del problema.
E l’altro aspetto da considerare?
È quello che riguarda i religiosi che operano nell’ambito dell’educazione e della sanità, i quali vedono mutare i loro rapporti con gli Stati, non solo in Italia, ma nel mondo. Queste relazioni sono diventate più difficili, perché in molti casi, la collaborazione che prima c’era, adesso non c’è più. A dire il vero, sembra ancora che ci sia e ci si fidi, ma ci ritroviamo in un vicolo cieco da dove non si può uscire. I soldi dello Stato non arrivano o arrivano molto in ritardo o in misura minore. Un altro fattore da tenere presente è la non preparazione tecnica di alcuni consacrati nel gestire i beni con i nuovi regolamenti statali e le varie implicazioni amministrative. Per questo, è urgente una formazione più ampia. Oltre a ciò, bisogna che certi criteri di amministrazione evolvano all’interno della Chiesa, perché la gestione non può essere di tipo capitalistico, ma evangelico.
Che significa in concreto?
Viviamo in una cultura che considera il capitalismo come la legge che governa la gestione dei soldi. Per i religiosi non dev’essere così: deve prevalere il Vangelo, non il contrario. Mentre in molti casi il Vangelo viene messo in secondo piano. E in tal senso la nostra mentalità deve cambiare molto. Proprio per questo, grazie anche al contributo di tante persone che hanno maturato un’esperienza nell’ambito della gestione dei beni religiosi, abbiamo realizzato delle Linee orientative per la gestione dei beni negli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che pubblicheremo nei prossimi giorni.
A proposito di documenti, la vostra Congregazione, in collaborazione con quella per i vescovi, sta rivedendo Mutuae relationes, ovvero i criteri direttivi sui rapporti tra i presuli e i religiosi nella Chiesa.
Il Papa lo ha chiesto esplicitamente. E ci sono delle novità. In primo luogo, crediamo, e Papa Francesco lo ha confermato, che uno dei criteri per stabilire rapporti maturi tra vescovi e superiori religiosi nei vari carismi sia la spiritualità di comunione. Questo deve essere il criterio. Giovanni Paolo II diceva che sarà il criterio per il nuovo millennio cristiano. Ciò ha delle conseguenze molto forti nel rapporto tra vescovi e fondatori. Le due realtà sono necessarie, ma devono prendere a modello per i rapporti umani la comunione della Trinità. Secondariamente, ci ispiriamo a Papa Wojtyła quando dice un’espressione in un certo senso nuova e parla di aspetti coessenziali della Chiesa. Uno è l’aspetto carismatico e l’altro quello gerarchico. Non dice che sono sottomessi l’uno all’altro, perché non lo sono. Nel carisma parla lo Spirito Santo. D’altronde, nessun carisma esiste nella Chiesa se la Chiesa non lo conferma. Se non passa questo rapporto tra le due parti, basato sul mistero, ci sono dei problemi, delle sovrapposizioni. Lo Spirito Santo non è sottomesso alla gerarchia, è il contrario. Bisogna correggere questa mentalità, perché non siamo padroni del mistero. D’altra parte, lo Spirito non crea confusione, ma armonia per lo sviluppo della Chiesa. E il Pontefice invita ad andare avanti sulla coessenzialità. Questi due principi guideranno il lavoro che stiamo facendo insieme con la Congregazione per i vescovi trentasei anni dopo Mutuae relationes. Spero che il documento sia pronto per l’Anno della vita consacrata.
Tra i documenti in revisione c’è anche la costituzione apostolica Sponsa Christi di Pio XII?
Sì, anche se lavori sono ancora all’inizio. Ma il Papa vuole che il testo sia rivisto perché è preconciliare. Eravamo un po’ meravigliati che non vi fosse stata una costituzione apostolica successiva sullo stesso tema, ma solo un’istruzione nel 1999, la Verbi sponsa. In questo momento, stiamo ascoltando le consacrate di vita contemplativa. Vogliamo maturare con loro. Abbiamo promosso un sondaggio su tre punti: la questione dell’autonomia, la formazione e la clausura. Per quanto riguarda l’autonomia bisogna capirla bene, perché favorisca la vita comunitaria secondo le varie regole. Il secondo punto è la questione della formazione. Come offrire la formazione? Solo all’interno del monastero? E come fare perché qualcosa in più sia garantito, perché non rimangano al margine della Chiesa o che la loro ricchezza non giunga fuori? Terzo aspetto: come vivere la clausura nel mondo di oggi.
Lei prima ha accennato all’Anno della vita consacrata. Cosa ci si aspetta da questo appuntamento?
Siamo coscienti dei problemi che ci sono nella vita religiosa. Vogliamo però vedere l’aspetto positivo, perché i consacrati sono un immenso dono alla Chiesa. Allora desideriamo dare uno sguardo al passato anche se ci sono state delle difficoltà, degli sbagli, soprattutto dal concilio Vaticano II fino a oggi, ma guardare con una memoria grata. La gratitudine è essenziale, perché questo dono di Dio è stato molto grande. Cerchiamo di scoprire qual è stata l’azione di Dio nella vita consacrata. Vogliamo poi guardare al presente con passione. O ricomponiamo questo sguardo di passione della vocazione dei consacrati o non abbiamo posto nella Chiesa. Cosa è successo nei consacrati? C’è stato uno sguardo di Dio che ha dato un carisma, come un dono per esser vissuto. È, quindi, l’esperienza di Dio che importa prima di tutto. E questo non si può perdere. Si possono lasciare le opere, le strutture, cose della nostra storia che sono secondarie. Ma lo sguardo di Dio, il suo amore, non possiamo perderlo. Allora, abbiamo focalizzato tutto ciò nel presente. E per il futuro, siccome Dio nella Bibbia in tutta la storia non ha mai abbandonato l’uomo e mai è stato infedele — l’infedeltà è stata sempre da parte dell’ uomo — vogliamo guardare avanti con molta fiducia. Non è che andiamo verso la distruzione, andiamo verso la purificazione dell’esperienza di Dio. Questo è diverso. Allora, non è tanto imparare l’ars moriendi, ma imparare a seguire il Signore. Utili per riflettere sono anche le lettere circolari che stiamo pubblicando. La prima era Rallegratevi. La seconda sarà basata sull’esodo, sull’esperienza del popolo di Dio che guardava alla nube per scrutare i segni divini.
Quali obiettivi vi siete fissati?
In questo cammino per l’Anno della vita consacrata abbiamo tre scopi, molto semplici, ma molto positivi, ispirati al concilio: la sequela Christi, perché non è possibile essere consacrati se non siamo discepoli di Gesù. Il Vaticano II dice di andare alla centralità della Parola e della vita di fraternità. Dobbiamo rivedere completamente il concetto di autorità e di obbedienza. Rivedere anche i rapporti uomo-donna che dobbiamo approfondire molto di più. Secondo obiettivo è di tornare all’ispirazione iniziale dei nostri fondatori. Siamo sull’essenziale o siamo fuori strada? Si deve trovare il coraggio di tagliare quello che non è del fondatore e rimanere fedeli a lui. Tornare, cioè, alla sua intuizione carismatica. Terzo scopo è avere la consapevolezza che Dio ha parlato nel passato e parla ancora nel presente. Le persone di oggi però non sono quelle di ieri. Dobbiamo attualizzare il messaggio, bisogna avere la forza di ascoltare. A volte si pensa di seguire Cristo ma in un modo legato a un determinato tempo. Questo non serve. Perché se il fondatore fosse vivo dialogherebbe con il mondo di oggi. Bisogna aprire i nostri orecchi alla cultura attuale e cogliere le esigenze alle quali il Vangelo può rispondere.
Si può tracciare l’identikit del religioso secondo gli insegnamenti di Papa Francesco?
Prima di tutto penso che il religioso sia un profeta come dice il vescovo di Roma. È la profezia che definisce il religioso, perché annuncia valori che si stanno perfezionando e saranno quelli del futuro. Annuncia cioè nell’oggi le cose che verranno. Il religioso deve risvegliare il mondo, perché conosca e sappia ciò, che si confronti con questa esperienza. Se pensiamo alla consacrazione a Dio nella verginità, al non appoggiarsi sui beni, al non avere autorità nel senso dell’oppressione, ma nel senso della fraternità, annuncia dei valori profetici. Il consacrato può allora veramente risvegliare il mondo. Il Papa poi insiste molto sulla questione della fraternità per uscire verso la gente, i piccoli, i poveri. Nella fraternità se non si ha un clima di famiglia, non si rimane. Si cerca di trovare il proprio posto nella Chiesa. Però, a volte non si trova non perché non ci sia la chiamata, ma perché la persona non ha trovato casa, non è felice. Il Pontefice poi non vede la vita consacrata come una realtà aperta, perché gli altri entrino, ma aperta per uscire per dire quello che si ha. Ma se uno non ha cosa può offrire? In questo senso, c’è un desiderio molto grande di autenticità. Quello di andare verso i poveri è già presente nei religiosi che, con un cuore immenso, sono presenti e vicini a chi è nella necessità. Bisogna rafforzare ancora questa presenza.
Come vede il futuro dei consacrati?
Prevedo che molte delle forme storiche si perfezioneranno. Non è più possibile avere una visione “autoritaria” dell’autorità. Non si è di più perché si è superiori, ma fratelli e sorelle come gli altri. Non può esserci poi un’obbedienza che diminuisca la persona. Si obbedisce per essere di più, per poter entrare nella profezia di Dio. L’altra questione su cui riflettere è quella affettiva e sessuale. Ci siamo allontanati tra uomo e donna in un modo che non è corretto, perché non ci conosciamo più e allora non integriamo il valore dell’altra parte. Siamo mondi completamente separati. Si deve trovare una luce più alta che ci dia la capacità di guardare negli occhi, però con gli occhi di Dio, in un modo bello, reale, secondo gli orientamenti della Chiesa. Bisogna avere la sapienza che preserva i valori, ma che ti fa essere un uomo vero che non ha paura e che sa rapportarsi con le idee, ma anche con il corpo nel senso vero, normale, di chi sorride nella maniera in cui si può servire Dio.
L'Osservatore, 2 agosto 2014.
(Nicola Gori) In un mondo dominato dalle logiche di mercato, dev’essere il Vangelo il criterio fondamentale per la gestione dei beni nelle comunità religiose. Per questo la Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica pubblicherà nei prossimi giorni alcune linee orientative sull’economia. Il documento è frutto anche del simposio sull’economia svoltosi all’Antonianum nel marzo scorso.
Lo annuncia in questa intervista al nostro giornale il cardinale prefetto João Braz de Aviz, che traccia inoltre un identikit del religioso secondo gli insegnamenti di Papa Francesco.
La gestione dei beni patrimoniali delle comunità religiose in un tempo di crisi di vocazioni e anche di crisi economica costituisce una duplice sfida. Come affrontarla?
L’argomento è di scottante attualità. Per questo Papa Francesco ha voluto che gli si dedicasse un simposio. E noi abbiamo provveduto a organizzarlo dall’8 al 9 marzo scorsi alla Pontificia università Antonianum. Il tema dei lavori riguardava proprio la gestione dei beni ecclesiastici religiosi «a servizio dell’humanum e della missione della Chiesa». E abbiamo riscontrato una grande esigenza di qualcosa di più profondo e di nuovo in questo ambito. Lo abbiamo capito quando abbiamo visto la sensibilità dei religiosi nel partecipare al simposio. Ci siamo preparati per ricevere quattrocento persone, invece, non solo ne sono venute seicento, ma ne sono rimaste fuori altre cinquecento.
A cosa si deve questa grande aspettativa?
Al fatto che il problema è reale. Da un lato c’è una nuova fioritura di monasteri, eremi, congregazioni, nuove società di vita apostolica, ma dall’altra c’è un declino abbastanza accentuato di alcune realtà. Tale declino pone degli interrogativi riguardo ai beni. Questi patrimoni a chi vanno? Come fare? E questo è solo un aspetto del problema.
E l’altro aspetto da considerare?
È quello che riguarda i religiosi che operano nell’ambito dell’educazione e della sanità, i quali vedono mutare i loro rapporti con gli Stati, non solo in Italia, ma nel mondo. Queste relazioni sono diventate più difficili, perché in molti casi, la collaborazione che prima c’era, adesso non c’è più. A dire il vero, sembra ancora che ci sia e ci si fidi, ma ci ritroviamo in un vicolo cieco da dove non si può uscire. I soldi dello Stato non arrivano o arrivano molto in ritardo o in misura minore. Un altro fattore da tenere presente è la non preparazione tecnica di alcuni consacrati nel gestire i beni con i nuovi regolamenti statali e le varie implicazioni amministrative. Per questo, è urgente una formazione più ampia. Oltre a ciò, bisogna che certi criteri di amministrazione evolvano all’interno della Chiesa, perché la gestione non può essere di tipo capitalistico, ma evangelico.
Che significa in concreto?
Viviamo in una cultura che considera il capitalismo come la legge che governa la gestione dei soldi. Per i religiosi non dev’essere così: deve prevalere il Vangelo, non il contrario. Mentre in molti casi il Vangelo viene messo in secondo piano. E in tal senso la nostra mentalità deve cambiare molto. Proprio per questo, grazie anche al contributo di tante persone che hanno maturato un’esperienza nell’ambito della gestione dei beni religiosi, abbiamo realizzato delle Linee orientative per la gestione dei beni negli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che pubblicheremo nei prossimi giorni.
A proposito di documenti, la vostra Congregazione, in collaborazione con quella per i vescovi, sta rivedendo Mutuae relationes, ovvero i criteri direttivi sui rapporti tra i presuli e i religiosi nella Chiesa.
Il Papa lo ha chiesto esplicitamente. E ci sono delle novità. In primo luogo, crediamo, e Papa Francesco lo ha confermato, che uno dei criteri per stabilire rapporti maturi tra vescovi e superiori religiosi nei vari carismi sia la spiritualità di comunione. Questo deve essere il criterio. Giovanni Paolo II diceva che sarà il criterio per il nuovo millennio cristiano. Ciò ha delle conseguenze molto forti nel rapporto tra vescovi e fondatori. Le due realtà sono necessarie, ma devono prendere a modello per i rapporti umani la comunione della Trinità. Secondariamente, ci ispiriamo a Papa Wojtyła quando dice un’espressione in un certo senso nuova e parla di aspetti coessenziali della Chiesa. Uno è l’aspetto carismatico e l’altro quello gerarchico. Non dice che sono sottomessi l’uno all’altro, perché non lo sono. Nel carisma parla lo Spirito Santo. D’altronde, nessun carisma esiste nella Chiesa se la Chiesa non lo conferma. Se non passa questo rapporto tra le due parti, basato sul mistero, ci sono dei problemi, delle sovrapposizioni. Lo Spirito Santo non è sottomesso alla gerarchia, è il contrario. Bisogna correggere questa mentalità, perché non siamo padroni del mistero. D’altra parte, lo Spirito non crea confusione, ma armonia per lo sviluppo della Chiesa. E il Pontefice invita ad andare avanti sulla coessenzialità. Questi due principi guideranno il lavoro che stiamo facendo insieme con la Congregazione per i vescovi trentasei anni dopo Mutuae relationes. Spero che il documento sia pronto per l’Anno della vita consacrata.
Tra i documenti in revisione c’è anche la costituzione apostolica Sponsa Christi di Pio XII?
Sì, anche se lavori sono ancora all’inizio. Ma il Papa vuole che il testo sia rivisto perché è preconciliare. Eravamo un po’ meravigliati che non vi fosse stata una costituzione apostolica successiva sullo stesso tema, ma solo un’istruzione nel 1999, la Verbi sponsa. In questo momento, stiamo ascoltando le consacrate di vita contemplativa. Vogliamo maturare con loro. Abbiamo promosso un sondaggio su tre punti: la questione dell’autonomia, la formazione e la clausura. Per quanto riguarda l’autonomia bisogna capirla bene, perché favorisca la vita comunitaria secondo le varie regole. Il secondo punto è la questione della formazione. Come offrire la formazione? Solo all’interno del monastero? E come fare perché qualcosa in più sia garantito, perché non rimangano al margine della Chiesa o che la loro ricchezza non giunga fuori? Terzo aspetto: come vivere la clausura nel mondo di oggi.
Lei prima ha accennato all’Anno della vita consacrata. Cosa ci si aspetta da questo appuntamento?
Siamo coscienti dei problemi che ci sono nella vita religiosa. Vogliamo però vedere l’aspetto positivo, perché i consacrati sono un immenso dono alla Chiesa. Allora desideriamo dare uno sguardo al passato anche se ci sono state delle difficoltà, degli sbagli, soprattutto dal concilio Vaticano II fino a oggi, ma guardare con una memoria grata. La gratitudine è essenziale, perché questo dono di Dio è stato molto grande. Cerchiamo di scoprire qual è stata l’azione di Dio nella vita consacrata. Vogliamo poi guardare al presente con passione. O ricomponiamo questo sguardo di passione della vocazione dei consacrati o non abbiamo posto nella Chiesa. Cosa è successo nei consacrati? C’è stato uno sguardo di Dio che ha dato un carisma, come un dono per esser vissuto. È, quindi, l’esperienza di Dio che importa prima di tutto. E questo non si può perdere. Si possono lasciare le opere, le strutture, cose della nostra storia che sono secondarie. Ma lo sguardo di Dio, il suo amore, non possiamo perderlo. Allora, abbiamo focalizzato tutto ciò nel presente. E per il futuro, siccome Dio nella Bibbia in tutta la storia non ha mai abbandonato l’uomo e mai è stato infedele — l’infedeltà è stata sempre da parte dell’ uomo — vogliamo guardare avanti con molta fiducia. Non è che andiamo verso la distruzione, andiamo verso la purificazione dell’esperienza di Dio. Questo è diverso. Allora, non è tanto imparare l’ars moriendi, ma imparare a seguire il Signore. Utili per riflettere sono anche le lettere circolari che stiamo pubblicando. La prima era Rallegratevi. La seconda sarà basata sull’esodo, sull’esperienza del popolo di Dio che guardava alla nube per scrutare i segni divini.
Quali obiettivi vi siete fissati?
In questo cammino per l’Anno della vita consacrata abbiamo tre scopi, molto semplici, ma molto positivi, ispirati al concilio: la sequela Christi, perché non è possibile essere consacrati se non siamo discepoli di Gesù. Il Vaticano II dice di andare alla centralità della Parola e della vita di fraternità. Dobbiamo rivedere completamente il concetto di autorità e di obbedienza. Rivedere anche i rapporti uomo-donna che dobbiamo approfondire molto di più. Secondo obiettivo è di tornare all’ispirazione iniziale dei nostri fondatori. Siamo sull’essenziale o siamo fuori strada? Si deve trovare il coraggio di tagliare quello che non è del fondatore e rimanere fedeli a lui. Tornare, cioè, alla sua intuizione carismatica. Terzo scopo è avere la consapevolezza che Dio ha parlato nel passato e parla ancora nel presente. Le persone di oggi però non sono quelle di ieri. Dobbiamo attualizzare il messaggio, bisogna avere la forza di ascoltare. A volte si pensa di seguire Cristo ma in un modo legato a un determinato tempo. Questo non serve. Perché se il fondatore fosse vivo dialogherebbe con il mondo di oggi. Bisogna aprire i nostri orecchi alla cultura attuale e cogliere le esigenze alle quali il Vangelo può rispondere.
Si può tracciare l’identikit del religioso secondo gli insegnamenti di Papa Francesco?
Prima di tutto penso che il religioso sia un profeta come dice il vescovo di Roma. È la profezia che definisce il religioso, perché annuncia valori che si stanno perfezionando e saranno quelli del futuro. Annuncia cioè nell’oggi le cose che verranno. Il religioso deve risvegliare il mondo, perché conosca e sappia ciò, che si confronti con questa esperienza. Se pensiamo alla consacrazione a Dio nella verginità, al non appoggiarsi sui beni, al non avere autorità nel senso dell’oppressione, ma nel senso della fraternità, annuncia dei valori profetici. Il consacrato può allora veramente risvegliare il mondo. Il Papa poi insiste molto sulla questione della fraternità per uscire verso la gente, i piccoli, i poveri. Nella fraternità se non si ha un clima di famiglia, non si rimane. Si cerca di trovare il proprio posto nella Chiesa. Però, a volte non si trova non perché non ci sia la chiamata, ma perché la persona non ha trovato casa, non è felice. Il Pontefice poi non vede la vita consacrata come una realtà aperta, perché gli altri entrino, ma aperta per uscire per dire quello che si ha. Ma se uno non ha cosa può offrire? In questo senso, c’è un desiderio molto grande di autenticità. Quello di andare verso i poveri è già presente nei religiosi che, con un cuore immenso, sono presenti e vicini a chi è nella necessità. Bisogna rafforzare ancora questa presenza.
Come vede il futuro dei consacrati?
Prevedo che molte delle forme storiche si perfezioneranno. Non è più possibile avere una visione “autoritaria” dell’autorità. Non si è di più perché si è superiori, ma fratelli e sorelle come gli altri. Non può esserci poi un’obbedienza che diminuisca la persona. Si obbedisce per essere di più, per poter entrare nella profezia di Dio. L’altra questione su cui riflettere è quella affettiva e sessuale. Ci siamo allontanati tra uomo e donna in un modo che non è corretto, perché non ci conosciamo più e allora non integriamo il valore dell’altra parte. Siamo mondi completamente separati. Si deve trovare una luce più alta che ci dia la capacità di guardare negli occhi, però con gli occhi di Dio, in un modo bello, reale, secondo gli orientamenti della Chiesa. Bisogna avere la sapienza che preserva i valori, ma che ti fa essere un uomo vero che non ha paura e che sa rapportarsi con le idee, ma anche con il corpo nel senso vero, normale, di chi sorride nella maniera in cui si può servire Dio.